Gabriella Ponte ( Genova)
GUERRA AL KILLER “ IIIC pT3C N0 G3”
Sommario :
Non sono fisime femminili…ho un cancro ovarico!!!!!!. 2
Scherzi della notte ( Dottor Jekyll e MrHyde) 3
Di corsa in un centro oncologico
.. 4
Biciclettisti dell’Oltrepo’ 5
Non avrai il mio scalpo. 5
Una “berlinese del’45” nel 2011. 6
La forza e il sorriso. 7
Seconda linea. 7
Una donna “più intelligente”. 8
E ora? Cosa faccio? Perché? E poi?. 9
Una coppia interessante. 9
No, dai Colleghi no!. 10
Sindrome di Stoccolma?. 11
Guerra di movimento e guerra di trincea. 12
Al sabato la toracentesi non si può fare. 12
Come Mino. 14
Due medici….diversi 15
Gerusalemme. 15
Non rimarrò per semenza!. 16
La nonna Rosa. 17
Ho avuto la percezione di avere qualcosa nel mio corpo che non funzionava nel luglio 2009, all’età di 58 anni.
Ero sul treno e stavo andando ad un appuntamento importante: mio figlio e la sua ragazza avrebbero discusso la tesi in medicina ed io con un bel bouquet colorato e una macchina fotografica andavo a sentirli.
Ma qualcosa nella mia pancia non funzionava. Da un po’ a dire il vero. Era un periodo di stress, fine dell’anno scolastico, poi gli esami di maturità. Durante gli orali un giorno ero stata malissimo, avevo vomitato. Mangiavo in modo disordinato come nei periodi di stress, esagerando un po’ con i dolci.
Tra breve sarei andata finalmente a godermi le ferie con mio marito nell’Oltrepo’, e i nostri giri in bici e i pasti più attenti mi avrebbero fatto dimenticare tutto e come tutti gli anni avrei ricaricato le pile.
Il 10 agosto nonostante la dieta, il relax e i giri in bici le cose non erano migliorate: un dolore in basso a destra, che si accentuava comprimendo…sembrava un’appendicopatia. Mi ero finalmente decisa a parlarne con mio marito (medico). Decidemmo di tornare a casa e di fare analisi e visite.
Dopo ecotomo addominale, visita ginecologica con eco trans vaginale e PAP test il Ginecologo disse : “Tutto bene, questi non sono i tipici dolori ginecologici: indagate in altra sede”.
Ritorno quindi in campagna con il proposito di continuare con dieta, riposo psico-fisico e assumendo ogni tanto degli antispastici, che sembrava facessero effetto, ma i doloretti strani si ripresentavano ogni tanto.
Tra gli esami del sangue il CA 125 era lievemente aumentato: il Ginecologo disse che probabilmente era un aumento “aspecifico”: comunque ricontrollare.
Dopo 1 mese CA 125 aumentato a 100; la TAC addome negativa salvo lieve raccolta nel cavo di Douglas, che il Ginecologo non confermò al controllo eco trans vaginale: “ Torni tra un mese e nel frattempo vada dal Gastroenterologo”.
il Ginecologo sosteneva che ci sono infinite ragioni perché ci sia un aumento di questo marcatore, tanto che dopo la visita, uscendo dallo studio, mio marito mi aveva detto “Continuiamo a cercare, comunque la cosa più temibile, il cancro alle ovaie, ce lo ha escluso” !.
Così a ottobre feci una colonscopia, che mi provocò molto dolore ma non evidenziò lesioni.
Ricordo di essere arrivata a pensare di ingigantire un banale malessere, di soffrire di un problema psicologico, di un malanno presente solo nella mia testa.
Sentimmo un amico Oncologo medico: fare risonanza e poi – risultata questa negativa ( salvo il modesto liquido nel Douglas ) – una PET-TAC, che risultò sostanzialmente negativa.
Nel frattempo eravamo arrivati a dicembre.
Il dolore si presentava in modo intermittente, lasciandomi anche settimane di benessere e poi spostandosi sotto il diaframma a destra.
Ricordo che mentre vedevo un film non potevo assolutamente ridere perché il dolore a destra si accentuava in modo intollerabile.
Finì che “per venirne a capo” l’ 11 gennaio 2010 mi sottoposi ad una laparoscopia esplorativa presso una Chirurgia universitaria..
Malgrado le rassicurazioni avute dall’ Operatore dopo l’ indagine ( mi fu anche asportata l’ appendice), l’esame citologico istologico (sul moncone appendicolare) dette un esito certo: carcinoma tubo-ovarico sieroso papillifero, grading III.
Il mio star male era quindi vero e concreto anche se facevo sempre tanta fatica a descriverlo ai Medici via via incontrati, che mi ascoltavano scettici.
Non era la mia immaginazione che dava corpo a chissà quali problemi psicologici o paure irrisolte o traumi infantili!
Peccato che avessi perso tanto tempo prezioso!!!
Scherzi della notte ( Dottor Jekyll e MrHyde)
Tra le mie compagne di stanza alla Clinica Universitaria vi era Giovanna, operata di cancro intestinale. Una donna aperta e colloquiale di giorno, ma …tutt’altra di notte: MrHyde insomma che la notte diventava il dottor Jekyll.
Per ragioni diverse non faceva dormire nessuno nella camera. Dopo qualche giorno di degenza la sua simpatia si era un po’ affievolita e qualcuna delle compagne di camera – eravamo in 6 - la metteva apertamente in discussione.
Durante la notte si lamentava continuamente per il dolore e non dava tregua alle infermiere, di giorno invece … era spesso al telefono, trattenendosi a lungo e facendoci tutte involontarie partecipi delle sue conversazioni. Quando poi arrivava qualche congiunto - la più presente era la figlia Giorgia - le telefonate si moltiplicavano: il suo cellulare sempre in funzione per rassicurare tutti sulla sua salute, per chiedere notizie della parentela, promettendo visite, organizzando pranzi, progettando incontri.
Non capivo chi fosse la vera Giovanna: quella che la notte non si tratteneva dal manifestare tutto il suo male e tutti i suoi disagi o quella che di giorno li occultava in una marea di telefonate rassicuranti ad una infinità di gente ?
La figlia Giorgia poi mi lasciava perplessa, anch’ essa intenta in lunghe telefonate nelle quali coinvolgeva la mamma. Aiutava la malata o la sfiniva? Era un modo efficace di esserle vicina e di sostenerla nella malattia, nella volontà di guarire?
Devo ammettere che era duro sopportarle, madre e figlia, dato che ci impedivano il riposo sia di giorno che di notte, ma poi malgrado tutto prevaleva la solidarietà tra persone e familiari che condividono la stessa malattia e che esprimono in modo diverso il proprio vissuto di ansia e di dolore.
Tra noi c’ è chi racconta tutto di sé e chi tiene tutto per sé: sicuramente nessuno di questi comportamenti è quello giusto, ma certo è difficile parlare della propria malattia e anche trovare chi ti ascolta con vera empatia.
Di corsa in un centro oncologico
Decido con mio marito di andare in un centro oncologico specializzato: il chirurgo che mi visita palpa la mia malattia e mi consiglia un intervento il più tempestivo possibile.. Quando gli dico che mi dispiace dover abbandonare le mie due quinte classi che hanno l’esame di Stato finale mi guarda come se fossi una marziana.
Solo un insegnante può capire. Non è sentirsi indispensabili, insostituibili, presuntuosi, è qualcosa di diverso, è un rapporto che si instaura anno dopo anno, tanto che alla fine gli Allievi diventano una parte di te, anche quelli che ti fanno dannare, che contestano, che nell’età dell’adolescenza ce l’hanno con il mondo intero e quindi anche con te.
Sono stata operata il 2 febbraio 2010: risulta uno stadio III C,e mi vengono tolte ovaie, omento, tutto infettato, malato.
Non dimenticherò mai quella settimana di ricovero, la mia fatica a riprendermi fisicamente e psicologicamente…e tutta quella neve che vedevo fuori e mi sembrava un ostacolo a tornare a casa, a uscire dal tunnel scuro nel quale ero entrata.
E’ stato allora che ho cominciato a chiedere a mio marito: “Morirò”?
Mi aspettavo forse che avrebbe detto di no, che avrebbe inutilmente tentato di rassicurarmi, di deviare la mia mente dai brutti pensieri e invece lui deciso, sicuro, mi ha sempre risposto:
“Certo, moriremo tutti, anche se non sappiamo quando”.
Quella frase inaspettata e che per un verso non mi è mai piaciuta, mi ha sempre fatto sentire uguale agli altri e chissà perché, meno malata.
Poi la chemio, faticosa, debilitante, con il taxolo che mi faceva cadere i capelli a ciocche. Per non parlare dei globuli che mai andavano bene: o erano carenti quelli rossi o quelli bianchi o le piastrine. La chemio non doveva in tutti questi casi essere rimandata e dovevo prendere medicine per stimolare il midollo alla produzione in modo da poter rispettare il protocollo. Mi sono sentita al soldo della mia malattia: ero continuamente in ospedale a fare analisi, esami e mi sentivo debole, stanca. Avevo la sensazione che il cancro mi ghermisse sempre più e non c’era modo di far altro perché, anche se non volevo, aveva la mia costante attenzione e non mi permetteva distrazioni.
Con l’arrivo di aprile ho ricominciato ad andare qualche week end in campagna.
A fatica e senza averne molta voglia e a poco a poco, dapprima come una lumaca, ho ricominciato a fare le amate gite in bici…quasi piangendo per la gioia di riprendere le attività del tempo libero. Anche se le prime volte ero stanchissima, senza fiato, mi sentivo di nuovo normale e il casco nascondeva la totale calvizie, tanto che l’avrei tenuto sempre in testa.
I ciclisti che incontravo mi salutavano come una loro “pari grado” e senza saperlo contribuivano a tirarmi su il morale, a farmi sentire normale dopo tanti mesi.
“Alè! Alè!” mi dicevano superandomi in salita con scioltezza mentre arrancavo al minimo pendio. Non che io fossi mai stata granché come ciclista, ma peggio di così… Comunque c’ero e mio marito spergiurava che ero quasi in gamba come prima. Sapevo che non era vero ma mi serviva credere che lo fosse. “Basta che funzioni” è il titolo di un film di Woody Allen.
Finita la chemio a giugno 2010 e dopo essermi ristabilita, con il settembre ero tornata a scuola.
Al primo collegio docenti, con la parrucca, mi sentivo un po’ tesa. I miei colleghi ben sapevano la storia, anche se io non mi sentivo di parlarne: per illudersi di essere normale a volte è necessario chiudere la finestra e fare finta.
I miei Allievi forse sapevano che portavo la parrucca: qualcuno me lo chiese dopo, quando nel marzo successivo l’avevo finalmente tolta, sfoggiando un taglio corto, un po’ lontano dal mio solito look, ma che - dopo la totale pelata - mi sembrava quasi accettabile.
C’era stata qualche battutina scherzosa da parte degli Allievi di prima, ma io avevo sempre fatto finta di non sentire.
Avevo imparato a muovermi in modo che la parrucca non scappasse dalla testa e stavo lontana dai miei allievi quando si spostavano in modo irruento, sempre attenta a non venire travolta. Sognavo la notte di perdere la parrucca e vedevo le risate dei miei allievi che guardavano con imbarazzo la mia pelata. Ma era solo un sogno che rivelava tutta la mia paura.
Ricorderò sempre il giorno in cui avevo tolto la parrucca. Una mia Allieva diciottenne mi aveva detto che mi doveva parlare. Ero tanto stressata e in ansia, preoccupata, che temevo altri problemi. Alla fine della lezione Anna, una bella ragazza alta e slanciata che avrebbe potuto fare la modella, mi chiese se sapevo come si poteva curare la sua alopecia. Ero rimasta di sale. Mai avrei pensato che la sua bellissima capigliatura fosse una parrucca e presa dai miei problemi non avevo capito quanto potesse stare male una così bella ragazza che sembrava non mancare di niente. Mi sono vergognata per non aver capito un disagio in una mia Allieva. E poi alle soglie della pensione, quando si dovrebbe essere al top delle capacità professionali e psicologiche. L’essere troppo concentrata su me stessa, sui miei problemi me lo aveva impedito e questo non lo consideravo affatto positivo!!!
La mia malattia sembrava essere in remissione e io ero tornata a fare qualche timido programma, sempre a breve scadenza, arrivando anche a pensare che chissà, qualcuno anche di cancro guarisce.
Il mio CA 125 ad ogni controllo saliva leggermente, impercettibilmente, ma saliva. L’oncologa diceva che non dovevo fissarmi su quel numero, ma io pensavo non volesse dire niente di buono.
I miei Allievi riuscivano a non farmi pensare ai miei guai, insegnare comporta tanti problemi e richiede una messa in campo di energie che domandano un totale coinvolgimento.
Dopo gli esami di Stato con mio marito andammo in montagna, sulle Alpi, a respirare aria pura e a testare le mie gambe.
Mi sento bene, non prendo medicine ormai da qualche mese, ho appetito e…tento di non navigare troppo su internet per cercare statistiche sul cancro ovarico, per voler capire, sapere, conoscere le aspettative. Una tregua.
Da qualche parte ho letto che, durante la seconda guerra mondiale, i bombardamenti alleati su Berlino avvenivano ogni cinque ore: le persone si erano abituate a far fruttare quelle cinque ore, a non pensare che potevano morire. La vita doveva continuare e non era ammesso nessun ritardo al lavoro. Ricordo la chiusura dell’articolo: “ e la Filarmonica suonava come se nulla fosse”. Anch’io dovevo fare finta di essere una berlinese di quegli anni.
Non è facile imparare a convivere con la morte in tempi nei quali e’ diventato sempre più difficile parlarne, quasi fosse un tabù da nascondere. Si dimentica che non può essere sconveniente parlare di qualcosa che inevitabilmente concluderà la vita di chiunque è nato.
Dovevo imitare i berlinesi od almeno tentare, cercare di essere “una di loro”: avrei pensato ogni tanto alla malattia, a quel mostro che si era fatto vivo e non aveva poi dato più segni di sé.
In quelle cinque ore avrei fatto la mia vita normale pensando alle cose da fare, alle persone che incontravo, cercando di deviare il meno possibile dalla normale quotidianità.
Ho trascorso un pomeriggio in un laboratorio di make up per imparare a truccarmi! Dalla malattia in poi ne ho spesso sentito la necessità: le occhiaie peggiorano, le rughe aumentano e il colorito vira inesorabilmente verso un verdino-grigino-giallino davvero deprimenti. Mi sono trovata con altre quattro “compagne di corso” e per truccarci ci siamo tutte tolte la parrucca. E’ stato un momento in cui sembrava ci fosse mancato il respiro in contemporanea e non sapevamo dove guardare.L’estetista, molto in gamba, ha subito cominciato a spiegarci come fare, mettendoci presto alla prova e sollecitandoci, dopo una prima dimostrazione, a fare da sole.
L’atmosfera a poco a poco si è riscaldata e il gruppo ha cominciato a divertirsi, a fare battute, dimenticando per un po’ i guai personali.
Confesso che non sono mai stata capace di truccarmi, ma questo era l’ennesimo modo per mettere a tacere il dolore interiore e ce l’ho messa tutta, cercando di fare del mio meglio. Alla fine del corso dopo il tè con i biscottini ci è stato omaggiato un bel beauty case bianco con tanti prodotti che da allora uso quotidianamente, tentando, anche con il trucco, di tirarmi su il morale quando ne ho bisogno.
A settembre 2011 ho ricominciato l’anno scolastico e una seconda linea di chemio, perché la malattia era recidivata.
Al di là dei giorni di stanchezza abissale, di mal di testa, di nausea e di mal di pancia, cerco di condurre una vita normale.
Ma non c’è il taxolo ed io non tornerò calva e questa mi sembra una conquista.
E poi fare le cose per la seconda volta dà dei vantaggi. Si sa cosa aspettarsi e si gioca d’anticipo e le cose che si conoscono fanno meno paura. Ero una sorta di malata esperta e sapevo come prevenire e curare i disturbi e poi c’era un altro vantaggio. Se dopo la prima linea di chemio mi era stato detto che dovevo fare “watch and wait” adesso avrei continuato con il bevacizumab, il “beva”, che avrei continuato dopo i sei cicli di chemio.
Mi ero attrezzata e avrei continuato a lavorare a dispetto della chemio che non facevo più da letto ma in poltrona, chiacchierando con le altre malate o leggendo.
Recentemente una giovane oncologa alla quale tentavo di spiegare che per me è fondamentale fare la chemio il venerdì per poter riprendermi nel week end e tornare a scuola il lunedì ha commentato:” Si vede che lei ci tiene tanto al suo lavoro!” lasciando anche trasparire una velata ironia. Confesso: il mio lavoro mi piace, ma attualmente sto più prendendo energia che dandone.
I miei allievi teenagers, con le loro energie, il loro sentirsi immortali, i loro ormoni al massimo, la loro voglia di vivere, di sperimentare, anche certe loro follie, certe trasgressioni, la loro voglia di sfidare le regole mi comunicano energia. Hanno tanta voglia di vivere che riescono in qualche modo a contagiarmi e a trascinarmi. Sono diventati una sorta di anti-chemio che mi aiuta ad andare avanti.
So che non sarò mai una vera berlinese, ma chissà, magari una parente.
Questa volta le mie vene un po’ stanche ed usurate mi hanno “imposto”un port per poter fare la chemio, che ho accettato come suppongo un orso in pericolo di estinzione il radio collare.
Il port peraltro mi lascia le mani libere e sono persino riuscita a correggere dei compiti senza l’ansia che le mie vene facessero capricci, con la necessità di venire bucata più volte come spesso succedeva durante la prima linea di chemio.
Ho conosciuto Vera durante una degenza in ospedale. Era una sudamericana di colore, sui 50, in Italia da una decina, dipendente dell’ impresa di pulizie. Quando era di turno lei lo si sentiva nell’aria, perché per magia l’odore del reparto era di mela verde, ma soprattutto di pulito. Mi era venuto spontaneo farle i complimenti: metteva di buon umore sentire dei buoni odori in un luogo che tanto spesso sa di medicinali e disinfettanti.
Sentirsi apprezzata le aveva fatto piacere: mi aveva parlato di sé, delle sue difficoltà con la lingua italiana, dei suoi figli, alcuni era riuscita a farli venire qui, altri erano rimasti con la nonna in Ecuador.
Era stata la conclusione del suo discorso che mi aveva lasciato di sale: “ Qui tanti pensano che io sia un po’ scema, io invece sono più intelligente di loro”. Leggendomi in volto una espressione interrogativa, mi aveva spiegato quella frase inaspettata che aveva concluso le sue confidenze.
Mentre le sue colleghe si limitavano a compiere lo stretto indispensabile - e magari un po’ di malagrazia - lei si dava sempre e comunque da fare. Nessuna mansione la spaventava, anzi svolgeva volentieri anche compiti che non erano di sua stretta competenza; qualche volta aveva pure sforato sull’orario, facendo uno straordinario che peraltro nessuno le avrebbe pagato.
Per questo sapeva di essere stimata nell’ ambiente di lavoro e le infermiere – che le volevano bene - l’ avevano aiutata volentieri in molte occasioni, anche se le sue colleghe spesso le dicevano che “era un po’ scema”.
Il mondo girerebbe meglio se ci fossero più persone come lei? Forse come affermava Vera è necessario possedere una dote particolare, essere per davvero “più intelligenti”.
Sono sempre in follow up presso un centro oncologico specialistico, dove mi segue un medico che vedo periodicamente e con il quale scambio e-mails quando ho bisogno di essere aiutata, consigliata e che spesso travolgo con le mie domande, i miei perché e che pazientemente mi risponde durante le visite e – più essenzialmente - per mail.
E’ una deformazione professionale: rispondere a domande, anche le più assurde, non mi sconvolge minimamente, fa parte del mio lavoro e mi sembra naturale farne a mia volta.
Talora forse esagero. Una collega mi raccontava di avere prenotato da un medico due visite lo stesso giorno per poter chiedere e fare tutte le domande che voleva. Non ci avrei mai pensato, non sarei arrivata a tanto.
Ho spesso scelto come regalo per i bambini che ricevono la prima Comunione quei bei libri illustrati che promettono di rispondere a tutti i perché. Quando ero piccola non esistevano dei libri così belli, con tante illustrazioni, che avrei voluto avere in regalo.
Si dice che gli insegnanti scelgano di insegnare perché è un lavoro che non li fa crescere completamente, che li mantiene a contatto con i giovani, perché hanno paura di invecchiare.
Può darsi, non lo so.
Quello che so sono le tante cose che ho imparato dai miei allievi, che tante volte mi hanno costretto a rimanere informata, a farmi domande e a mettere tutto in discussione come solo un adolescente sa fare.
Costa fatica, ma fa funzionare la testa.
Anche a una come me, refrattaria – come molte donne - a leggere i “manuali di funzionamento” e che dopo quindici anni di “onorato servizio” della lavatrice – ormai esausta - avrebbe voluto poter acquistare lo stesso antiquato modello, pur di evitarsi lo studio di un bel mucchietto di pagine con tutte le istruzioni.
La chemio la faccio in un ospedale vicino casa, dove ormai conosco tutti e come tante altre persone sono diventata una “cliente abituale”, fatto tante conoscenze, scambiato idee, pareri, conosciuto storie e anche imparato ricette di cucina da una cuoca che ci ha fatto assaggiare biscottini superbi (nausea permettendo, ovvio!)
Al “circolo chemioterapico” dove vado ogni 21 giorni ho conosciuto una coppia spassosissima e divertente che non dimenticherò mai: Maria, che fa la chemio e Luciano, che l’accompagna. Entrambi sulla quarantina, sono davvero particolari. Maria vuole essere trattata con tutte le attenzioni dalle infermiere, che vorrebbe sempre vicine per ogni sua minima necessità. Peccato il suo vocabolario non preveda le espressioni “per favore” o “grazie”, e le infermiere che lei vorrebbe dirigere a bacchetta non gradiscano. A me non sembra che Maria lo faccia per ineducazione: è un’istintiva che dice quello che le passa per la testa, senza troppo pensare.
E poi…a ben vedere ha certe sue ragioni. Sostiene che nella sala di DH ci vorrebbe un’infermiera fissa, in modo da evitare continue scampanellate da parte delle sei o sette malate che fanno la chemio per chiamare l’infermiera, che invece se ne sta nella sala prelievi. Secondo lei questo permetterebbe alle Pazienti di riposare, senza sobbalzare continuamente al suono dei campanelli che chiamano l’infermiera. Le infermiere le hanno già fornito svariate ragioni per giustificare l’impossibilità di fare come lei vorrebbe. Ma lei non demorde e tenta di avere la solidarietà delle altre malate, quasi tentando di ottenere una…sollevazione di popolo.
Altro motivo di attrito con le infermiere è Luciano, che Maria vuole vicino e che invece viene invitato ad uscire ogni volta che viene messa o tolta una flebo.
E’ allora che Maria non ha più pace perché (ormai lo abbiamo capito tutte) ci sono due cose che teme: che Luciano vada a fumare o peggio che lui si metta a chiacchierare con altre donne.
Comincia quindi a chiedere alle infermiere di richiamarlo. In fondo sono state loro ad allontanarlo, e sono loro che glielo devono recuperare.
Le infermiere però non sanno esercitare la ferrea logica di Maria e non sono così sollecite nel recuperare Luciano, che arriva dopo svariate insistenze.
E’ a questo punto che Maria si rivolge a Luciano, ma la sua vera mira sono le infermiere del reparto:”Noi qui non ci veniamo più, la prossima volta andiamo a ….” Sottolineando in tal modo il poco gradimento per l’ambiente.
Maria ha scambiato il reparto oncologico di day hospital per un grand hotel di altri tempi, quando un cliente che avesse manifestato di non gradire il servizio avrebbe avuto magari le scuse del Manager.
Sono silenziosamente dalla parte di Maria che mi ha fatto immaginare di trovarmi in un lussuoso albergo d’antan.
Da alcuni mesi non incontro questa coppia così particolare: ho timidamente tentato di chiedere notizie alle infermiere che non mi hanno dato molte spiegazioni. Chissà, forse Maria ha trovato un posto di suo gradimento dove Luciano viene lasciato in pace accanto a lei, a portarle la cioccolata calda e il caffè che le piacciono tanto.
Lavorare nel pubblico e combattere il cancro è forse più agevole che quando si lavora nel privato. So di malati che hanno dovuto dimettersi perché lavoravano in luoghi di lavoro con pochi dipendenti.
Personalmente ho sempre avuto dai colleghi comprensione e solidarietà.
Le cose non sono andate altrettanto bene per una giovane collega, ammalatasi di cancro. Rientrata al lavoro dopo essere stata operata e aver fatto le terapie, in base alla legge 104 precede tutti i colleghi nella graduatoria interna, che hanno dovuto completare il loro orario nelle succursali della nostra scuola.
Quanto avrei voluto che il disagio non venisse nemmeno palesato dai Colleghi e che la solidarietà avesse avuto la meglio su tutte le altre considerazioni!
Non è stato proprio così’ ed io ci sono rimasta malissimo, anche perché questi Colleghi sono delle gran brave persone, impegnate nelle attività parrocchiali.
Come fanno i Sani a non capire che i Malati affronterebbero qualunque disagio per riavere in cambio la loro salute?
A volte finisco negli abissi della disperazione, so che mi fa male: su quanti siti Internet si legge che hanno più chances di star bene e di guarire coloro che pensano positivo, che combattono, che non mollano! Invece ritorno punto e a capo.
Mi chiedo perché è capitato a me, cosa ho fatto di sbagliato. So quello che devo fare, come è meglio pensare, ma dal dire al fare …. e ripiombo nei tunnel degli incubi più neri.
Arrivo al fondo e piango tutte le mie lacrime e poi con l’ultimo barlume di energia e con sforzi sovrumani mi impongo altre cinque ore“berlinesi” di tregua!
Vengo a patti con me stessa: dopo cinque ore mi farò altre domande o cercherò qualche sito su Internet dove scoprire che c’è qualche ricerca in atto, qualche nuova speranza di cura.
Quelle cinque ore mi hanno aiutato e mi hanno fatto andare avanti dimenticando i pensieri più disperati.
Nel frattempo - per esempio - ho imparato a fare il pane seguendo la ricetta di una collega.
Per me, assolutamente negata per la cucina, è stato un impensabile obiettivo raggiunto.
E mai avrei detto mi avrebbe dato soddisfazione e suscitato l’ammirazione dei miei familiari.
I quali a volte, è comprensibile, esagerano anche nelle lodi e nel farmi le feste!
Finirà che sarò grata al mio “big killer” per avermi aperto scenari inimmaginabili, prospettive che non avrei mai preso in considerazione, esperienze che non avrei mai fatto, punti di vista interessanti?
No, credo di essere ben lontana dal soffrire anche lontanamente di una sorta di sindrome di Stoccolma e di poter in qualche modo farmi soggiogare dal mio killer.
Una cosa che credo di avere imparato - anche se non sempre riesco a metterla in pratica - è che la strategia vincente è rimanere padrona delle mie energie e combattere il Cancro con tattiche difensive astute, piuttosto che affrontarlo solo con la disperazione che finisce con il ritorcersi contro di me.
O almeno cercare di farlo e qualche volta riuscirci.
Io me lo immagino come l’Orco “ brutto grosso e cattivo” di tante fiabe e mi vedo piccola e indifesa: non posso batterlo sfidandolo in campo aperto, devo raggirarlo e impersonare Davide che combatte Golia.
Per il Natale del 2012 ho chiesto a mio figlio la registrazione di un racconto, che tante volte mi ha ripetuto e che qualche volta funziona dando tregua agli incubi della mia psiche.
” Nel 1994 i malati di HIV positivi morivano come mosche e non c’era niente da fare. Pensa cosa voleva dire per quei poverini che lo erano diventati non per condotte riprovevoli (droghe, rapporti sessuali a rischio ecc), ma perché avevano avuto solo bisogno di una trasfusione o erano emofilitici…. Ma in quell’anno con l’avvento della Haart questi malati sono stati curati. Quelli che erano riusciti a rimanere in vita fino al 1994 anche in tragiche condizioni lo sono ancora oggi……Devi fare come loro mamma, mettercela tutta per farti trovare viva all’appuntamento con la prossima Haart….”
La malattia forse mi ha fatto regredire, ma trovo sollievo nel farmi ripetere questa storia e ringrazio mio figlio che, seppure un po’ perplesso, mi accontenta sempre.
Il tumore è una malattia cronica con remissioni e riprese, quindi si tratta di sostenere una guerra di trincea, cercando sempre di fare tutto quello che conviene, che può esserti utile e non disperare mai nei progressi delle cure, anche se questi sono molto più lenti della tua malattia.
Una complicazione del mio carcinoma erano stati un versamento pleurico e pericardico. Avevo cominciato a sentire come una spina quando facevo le scale o camminavo in salita. Dovevo rallentare. Non avevo dato importanza a quella spina se non quando, oltre alla spina, avevo cominciato ad avere un orribile fiatone.
Ad un certo punto, impaurita in quanto nel giro di due mesi ero passata dai miei 60 anni anagrafici all’ l’impressione di averne 80 - un affanno che mi ricordava quello di mia nonna Rosa - mi decisi a dirlo.
Erano scattati i vari controlli: ecocardio, lastra del torace , tac e ricovero in ospedale per capire meglio la febbre che andava oltre i 38 la sera.
Ero daccapo. La mia oncologa, alla quale avevo mandato tutte le indagini fatte, perché non me la sentivo di andare fino a Milano, mi aveva detto di iniziare una terza linea di chemio, con caelix, la doxorubicina pegilata dimostratasi efficace in caso di malattia a carico delle sierose pleuriche.
La mia respirazione era peraltro andata peggiorando. Mettermi le scarpe era un problema, dormire lo potevo solo trovando posizioni strategiche e destreggiandomi con un’infinità di cuscini.
Un sabato, dopo una notte in cui avevo fatto davvero fatica a respirare, mio marito aveva deciso di portarmi al pronto soccorso: sperava che mi avrebbero potuto togliere un po’ di liquido ed io avrei così potuto respirare finalmente meglio. Lo vedevo sempre più preoccupato, anche se a parole cercava di minimizzare, ma dopo 40 anni insieme è inesorabile capire anche quello che non si vorrebbe.
Ero arrivata in ospedale verso le 11, con il cuore in subbuglio, la paura per quest’ennesima procedura, stanca per il sonno arretrato che ormai era diventato cronico.
Appena avevo messo piede nel reparto di cardiologia, avevo sentito un’infermiera dire a voce alta: “Una toracentesi di sabato, ma quando mai !”, seguita da altre parole dette però a voce più sommessa e che quindi non avevo capito.
Un pugno nello stomaco che mi aveva fatto davvero male.
Ero diventata sempre più vulnerabile, non mi riconoscevo più, la mia malattia aveva recidive fisiche e psichiche sempre difficili da affrontare.
Ad una OSS ( l’ “assistente socio-sanitaria” ) avevo allora chiesto se era una cosa eccezionale fare una toracentesi di sabato. “ Le devo dire che noi di sabato non la facciamo mai” fu la risposta, ma comunque aggiunse di non preoccuparmi: se era una causa di forza maggiore avrebbero fatto tutto quanto necessario.
Il mio morale era sotto le suole e io mi sentivo fuori posto, a chiedere una cosa che non veniva solitamente fatta.
E poi come affidarmi a delle Infermiere che dimostravano così poca sensibilità nei confronti di chi ha bisogno di cure?
In fondo respiravo ancora, bastava aprissi ogni tanto la finestra e andassi a respirare fuori, per magia i miei polmoni si ampliavano in qualche modo ed io avevo un po’ di sollievo.
Avrei fatto così fino a lunedì, sarei tornata in orario più consono e conveniente e la procedura avrebbe comportato certo lavoro, ma quel lavoro rientrava nella routine e si sarebbe accettato più volentieri.
Uscendo dall’ospedale mi dicevo che dovevo assolutamente ridimensionare l’episodio.
Cosa potevo lamentarmi io per delle semplici parole, quando a Nostro Signore si erano fatti ben altro che commenti poco sensibili alle spalle? Un ragionamento che dopo la malattia mi dava sempre una certa pace e mi salvava dalla disperazione.
D’altra parte mi chiedevo - non ne potevo fare a meno - se era possibile che le infermiere di un ospedale si permettessero certi commenti, solo perché la procedura per cui dovevano prestare assistenza veniva ad interrompere la loro routine: dare sollievo ad una ammalata non poteva far accettare quel modesto aumento del carico di lavoro ?
E poi… questi Operatori così pronti a scendere in piazza al minimo cenno di possibili ridimensionamenti e chiusure del loro Ospedale – e che per tante volte avevano cercato il nostro sostegno di Cittadini - non avrebbero dovuto dimostrare disponibilità e umanità ei confronti dell’ Utenza?
Alla loro causa non avrebbe giovato cercare di dare il meglio di sé e mettercela tutta per mostrarsi indispensabili?
Anche una toracentesi d’urgenza, di sabato, non poteva essere utile a far aumentare la produttività?
O forse è vero che gli Ospedali che i politici finiscono con il chiudere sono proprio quelli dove gli Operatori anziché darsi da fare per migliorarsi nella professionalità e nell’ accoglienza, finiscono per appiattirsi sulla routine?
Tutto perché non sono ancora riuscita a fare come Mino.
Dico dico, mi invento strategie anche complicate.
Quando basterebbe invece imitare lui e tutto andrebbe a posto. Mino è il gatto che si concede alle mie attenzioni quando sono in campagna.
In passato avevo una gatta, Mitzie, che è vissuta con me 10 anni e che ho pianto per giorni quando ci ha lasciato.
Dopo di lei non mi sono più sentita di avere un gatto, anche perché non c’era più mia madre a tenermelo quando io ero impegnata. Mitzie, una gatta tigrata un po’ selvatica, era stata salvata con altri fratellini in un cespuglio dopo aver miagolato un’intera notte.
Era diventata la gatta di casa e ci aveva fatto tanta compagnia.
Mino invece è tutto nero e tutto muscoli.
Arriva miagolando per farsi aprire, gradisce la sua dose di crocchette e poi si mette a ronfare nella cesta che era della Mitzie fin che ne ha voglia, poi miagola e vuole uscire.
Non gradisce troppe coccole e mi ha fatto ben capire come vuole essere trattato; i suoi denti aguzzi mi hanno dato un’ammonizione chiara: avrebbe potuto farmi davvero male.
Mitzie, che ho ancora sul display del telefonino, non l’aveva mai fatto.
Mino coglie l’attimo e poi va via a cogliere l’attimo successivo e di attimo in attimo vive la sua vita.
Preoccupata che rimanesse solo, al freddo e al gelo quando noi non ci siamo, ho manifestato le mie preoccupazioni ad una vicina e ho scoperto che Mino ha adottato anche lei.
E con la sua famiglia fa come con noi.
Ci sono quasi rimasta male.
Me lo ero immaginato solo, in difficoltà, al gelo dell’inverno, con la neve.
Sono andata anche oltre, chiedendomi come se la potrà cavare quando la sua muscolatura non sarà più quella di adesso, così forte e potente.
Sono più saggia io o Mino che dorme tranquillo nella cesta ignaro del suo futuro?
Nella malattia, come ovvio, mi hanno aiutato soprattutto mio marito e mio figlio… ma mi ha aiutato avere un marito ed un figlio medici?
Il fatto che fossero medici non l’ho mai sentito determinante. Appena ho saputo quale malattia mi stava ghermendo ho cominciato a vivere su Internet: volevo sapere, informarmi, e quando non capivo chiedevo prima a mio marito e poi a mio figlio o viceversa e quando mi sembrava che le spiegazioni non coincidessero sospettavo mi volessero nascondere qualcosa e mi rabbuiavo.
Sono arrivata a rimproverare mio figlio, sostenendo che mi aveva mentito quando preparava l’esame di oncologia anni prima, dicendomi che prima che un carcinoma si possa manifestare deve superare un discreto numero di passaggi e il nostro corpo ha tante difese da mettere in campo.
Ma è nei confronti delle terapie che i due medici divergono….forse perché mio marito si è laureato nel 1975 e mio figlio nel 2009.
Mio marito ascolta e discute con me di tutte le terapie che io trovo su Internet, si informa per conto suo sulle sperimentazioni e segue la letteratura in argomento; non ha preconcetti e non esclude che possa far bene una cura, anche se questa non ha il supporto di un trial randomizzato controllato...è possibilista, salvo dimostrazione contraria.
Mio figlio - divenuto medico in epoca EBM - prende in considerazione solo quello ( così poco!) che risulta scientificamente dimostrato.
Alle mie obiezioni sul sottopormi ad una terza linea di chemio mi ha risposto che se Steve Jobs, morto di cancro, fosse stato più sollecito e non avesse aspettato a fare la chemio, tentando dapprima altre cure,forse sarebbe ancora vivo.
Ad ogni buon conto …c’è un terzo medico che mi segue e concorda sempre con me il da farsi: la mia oncologa di riferimento, alla quale mi sono affidata da tempo.
Vincendo un po’ la paura per la distanza da casa e con l’ok dell’oncologa, provvistami di una assicurazione nel caso mi fosse successo qualcosa e di una borsa per le medicine piuttosto capiente sono andata a Gerusalemme.
Era tanto tempo che volevamo visitarla!
Nella mia strategia del “fare finta di essere sani”, ho accettato la proposta di mio marito. Lui ha sempre sostenuto che anche un viaggio all’estero mi poteva fare bene.
A posteriori devo dargli ragione, anche se sradicarmi da casa è stata una vera sofferenza.
Ho ancora negli occhi le immagini di tanti luoghi e di tante persone che mi hanno colpito.
Al Muro del pianto, tra tante altre donne assorbite in modo totale nelle loro preghiere, per la prima volta dopo tanto tempo mi sono dimenticata le mie “elucubrazioni statistiche” che faccio quando sono tra la folla: “chi ha il cancro e lo sa”, “chi lo ha e non lo sa”, “chi lo svilupperà”.
E nemmeno mi sono chiesta chi tra noi sarebbe morta per prima.
Ho ancora negli occhi l’immagine di una giovane donna che pregava leggendo un libretto, piangendo e dondolando il corpo, dimentica di tutto quello che la circondava, totalmente rapita e compresa nella sua preghiera.
Se una lezione ho appreso è che siamo davvero uguali, anche se crediamo il contrario.
Le donne musulmane e le ebree ultra-ortodosse forse credono di essere su posizioni tanto lontane, ma si vestono in modo non molto dissimile, nascondendo le loro forme e i loro capelli. Non sapevo che molte ebree di Mea Shearim– per una morale che impone la modestia alle donne - arrivassero anche e radersi completamente i capelli e usassero una parrucca quando escono di casa!
Ricordo il memoriale di YadVashem, dove – nel buio - sono ricordati i bambini morti nei campi di concentramento nazisti. Perché loro? Cosa avevano fatto degli esseri innocenti per meritare tanta cattiveria umana?
A Gerusalemme e ad YadVashem in particolare non ho trovato risposte, ma ancora altre domande e forse una grande consapevolezza: non devo più farmi domande ossessive, devo accettare i momenti di buio e il fatto che “ viviamo avvolti nel mistero”, come diceva mia suocera.
Pretendere di capire il dolore è – rubando l’ immagine a sant’ Agostino - come voler fare un buco nella sabbia e pensare di poterci far stare l’oceano.
Superati gli 80, la zia Tatta aveva cominciato ad appannarsi un po’, a dire a tutti che non si sentiva più lei. Alle mie rimostranze quando Lei si dichiarava pronta a morire, mi rispondeva sempre che lei “ non ci sarebbe rimasta per semenza”, provocando in me un dolore profondo al pensiero che un giorno avrei perso con Lei un punto di riferimento nella mia vita.
Quarta figlia dei miei nonni paterni, la zia Tatta era di 11 anni più anziana di mio padre, cui – da ragazza -aveva fatto un po’ da mamma. Quando nacqui, diventai subito la nipotina preferita.
Tra i più antichi ricordi della mia infanzia ci sono le lunghe ore che passavamo insieme stirando.
O meglio lei stirava e intanto – per gioco – fingeva di comperare da me i capi da stirare, come se fossimo in una merceria. Impiegavamo una intera serata per stirare e il suo lavoro certo non procedeva granché spedito; ma io mi divertivo un mondo e non mi veniva alcuna nostalgia dei miei genitori, che – usciti per andare al cinema - mi avevano lasciato in sua custodia.
La zia era stata una provetta sarta, aveva imparato a cucire in una prestigiosa sartoria di Genova, poi aveva provato a mettersi in proprio, ma la guerra e la necessità di accudire due genitori anziani avevano interrotto il suo lavoro e da allora non aveva quasi più voluto tenere un ago in mano.
In famiglia era considerata una donna fatta un po’ a suo modo, con un carattere un po’ bisbetico, degno di una zitella quale lei era. Cosa peraltro di cui si vantava. Se qualcuno le diceva “Signora” lei pronta correggeva “prego signorina”. Forse solo io riuscivo a travolgerla con le mie coccole infantili e solo con me si lasciava andare ad effusioni affettuose.
Un giorno mi aveva messo a parte di un suo segreto: “Avevo un fidanzato che veniva in casa e dovevamo sposarci, ma io prima del matrimonio lo avevo lasciato, perché non me la sentivo di sposarmi”. Altri componenti della famiglia dicevano invece che aveva piantato lo spasimante perché questi, in occasione del compleanno, oltre che a lei aveva fatto il regalo anche alle sue sorelle: questo l’avrebbe esageratamente indispettita ed ingelosita, al punto da troncare la relazione.
Da ragazza, avevo tentato di convincerla ad un patto: la prima di noi due che fosse morta sarebbe tornata a raccontare alla superstite come era l’ Aldilà….sarebbe stata lei a venire a raccontarmi il “dopo”: aveva 50 anni più di me! La zia Tatta, che difficilmente mi negava qualcosa, era stata irremovibile: mai avrebbe fatto una cosa simile, memore dell’ episodio da lei letto nella Vita di Giovanni Bosco, quando il futuro santo aveva contratto lo stesso patto con un amico seminarista …..
Poco prima che ci lasciasse ero andata a trovarla. Aveva la camera da letto a ponente e qui mi aveva condotta, perché il sole che vedeva lei dalla sua stanza non si vedeva -a suo dire- da nessun’altra parte. Abituata alle sue stranezze l’avevo seguita. Avevamo aspettato insieme il tramonto immerse in chiacchiere fitte fitte, anche se un po’ sconnesse da parte sua. L’ affetto che ci univa riusciva a farci andare al di là delle parole: in qualche modo capivo sempre quello che mi voleva dire. Io le parlavo normalmente, sicura di essere compresa.
Ad un certo punto mi aveva indicato il sole che cominciava a tramontare. Da quel momento eravamo rimaste in contemplazione senza più emettere una sillaba, né lei né io, rapite da uno spettacolo che né prima né dopo ricordo di aver visto tanto splendido e coinvolgente. Quel giorno forse ci siamo salutate, ed io spesso penso che ci ritroveremo insieme un’altra volta, ad ammirare un altro tramonto, bello come quello del nostro ultimo saluto.
La nonna Rosa
Sogno spesso mia nonna Rosa, donna forte e dolce allo stesso tempo. Lei forse intuiva che non avevo le sue certezze nei confronti della vita né il suo coraggio.
Citando Martin Luther King – erano gli anni ’60 - , mi ripeteva : “Un giorno la paura bussò alla porta, il coraggio andò ad aprire: non c'era nessuno”.
Prima o poi capita a tutti nella vita di sentire bussare alla nostra porta.
Come sia capitato a me ho cercato di raccontarlo e – malgrado tutto – sono qui, a vivere il mio oggi e la mia vita fragile e tenace.
Gabriella Ponte
:::::: Creato il : 06/03/2013 da Magarotto Roberto :::::: modificato il : 06/03/2013 da Magarotto Roberto ::::::