È morto Umberto Veronesi: " Non mi spaventa la fine, mi spaventa fare una brutta fine"
Per ricordare il chirurgo che ha dedicato la vita alla lotta ai tumori, riproponiamo una sua intervista al  settimanale Panorama
 
 
 
 
Quando si raggiunge l’età di Umberto Veronesi, classe 1925,  qualche riflessione esistenziale è d’obbligo. Di recente l’ha fatta  anche Benedetto XVI, che è poco più giovane del professore: "Mi trovo di  fronte all’ultimo tratto del percorso della vita e non so cosa mi  aspetta. Ma la fede mi aiuta a procedere con sicurezza".
Lui,  l’oncologo d’Italia, ascolta le parole del Papa con la curiosità di un  ragazzino. Lo stesso che dalla campagna immersa nella nebbia andava a  scuola a Milano scarpinando per 5 chilometri tutte le mattine. Erano i  tempi dei calzoni corti anche nei giorni della merla, della Fiat  Topolino, della guerra contro l’Etiopia, dell’Istituto per la  ricostruzione industriale che doveva salvare le banche dalla bancarotta.  Insomma, certe cose non cambiano mai
 
 
 
 
Per Joseph Ratzinger è la religione, a lei professore cosa l’aiuta a procedere con sicurezza?
Mi  aiuta la mia idea laica d’immortalità. Credo che il patrimonio d’idee  che lasciamo quando il nostro corpo non ha più vita sia immortale e  credo anche che fino all’ultimo istante l’essere umano può produrre  pensiero. Sono molti gli artisti e i pensatori che hanno raggiunto le  fasi più produttive della loro attività quando erano molto anziani.
E quali sono i pensatori che hanno dato tanto nel loro ultimo tratto?
Basta pensare a Stéphane Hessel, che con il suo saggio Indignatevi ha smosso i giovani d’Europa. L’ultimo tratto della vita è bellissimo.
Perché bellissimo?
Anzitutto  non devo più fare a pugni per fare carriera, e questa è una gran gioia.  Poi si è arricchiti dalla conoscenza, dall’esperienza e da una  filosofia di vita molto più distaccata e imparziale. Il metro di  giudizio è più indipendente e meno passionale. Quindi è giusto vivere  fino all’ultimo giorno senza il desiderio di andarsene, però è anche  giusto accettare la morte come un finale necessario per il ricambio  dell’umanità.
Scusi la domanda diretta: lei ha paura della morte?
No,  la morte non mi fa paura. Quando ero soldato sono saltato su una mina  e, in barba a tutte le statistiche, sono sopravvissuto. Ho passato mesi  in ospedale, subito diversi interventi ma alla fine sono sopravvissuto e  anche in buona salute. Questo ha cambiato la mia vita, perché da quel  momento ogni giorno vissuto è stato un giorno rubato a quello che  sembrava un destino inevitabile. Quest’esperienza mi ha dato forza,  ottimismo, serenità e soprattutto un’assoluta mancanza di paura della  morte.
Ma, sia sincero, proprio non la preoccupa la morte?
Beh,  l’idea di dovere morire non mi piace come non piace a tutti. Ma  piuttosto mi preoccupa il morire, vale a dire le fasi che mi porteranno  alla fine della mia vita. In particolare temo di perdere la mia lucidità  mentale e la mia coscienza.
Sempre incrociando le dita, quale sarebbe il suo ultimo desiderio?
Perché  incrociando le dita? È proprio vero che siamo un popolo di  superstiziosi. Noi rimuoviamo la morte e la teniamo nascosta quando  invece è un elemento fondamentale della nostra vita. La demonizziamo e  non vogliamo parlarne. Se dai la mano a una persona e contemporaneamente  se la danno altri due, la ritrai subito perché incrociando le braccia  fai una croce che richiama la morte. Ha notato?
Veramente non ci avevo mai pensato.
Provi,  succede sempre qui da noi e all’estero invece no. L’Italia è la terra  della superstizione: in tv vedi più maghi, chiromanti e sensitivi che  scienziati, negli ospedali i pazienti non vogliono essere operati il  giorno 13, sugli aerei hanno tolto la fila 13 e ora anche la 17. La  superstizione è istituzionalizzata e non è una semplice credenza,  abbiamo avuto un ct della nazionale che benediceva il campo da calcio  con l’acqua santa. Si figuri quindi quanto è difficile parlare di morte.
Mi viene in mente la battuta scaramantica di Totò in «I soliti ignoti»: «È la vita, oggi a te domani a lui!».
Grande regista Mario Monicelli.
Che ha scelto di uccidersi. Forse se l’eutanasia fosse legale avrebbe scelto una fine più dignitosa…
Vede,  purtroppo non sempre un medico riesce a lenire la sofferenza di un  paziente e in questo caso la condizione terminale doveva risultare  insopportabile. Comunque l’eutanasia è proibita dalla legge, anche se si  tratta di un atto di pietà che non dovrebbe essere negato in certe  circostanze.
Ha mai agevolato la morte di qualcuno?
Nessuno  me l’ha mai chiesto. Ho posto da sempre un’attenzione estrema al  controllo del dolore e, per mia fortuna, nessuno dei miei pazienti si è  mai trovato in una condizione di sofferenza tale da chiedere di  accelerare la sua fine.
Tornando all’ultimo desiderio?
Lo  definirei il primo desiderio e non l’ultimo: vedere il cancro  sconfitto. Questo è il mio obiettivo, anzi la missione della mia vita.  Poi, nella vita di tutti i giorni, desidero quello che vogliono anche  gli altri uomini.
Cioè soldi, potere e sesso?
Veramente questo è il sogno solo di alcuni.
Scherzavo, passiamo alle cose serie: cosa vorrebbe fosse scritto sulla sua lapide?
Qui giace un uomo che ha contribuito al controllo del male del secolo.
Crede nell’aldilà?
No.
Quando ha incontrato per la prima volta la morte?
Ho  perso mio padre che avevo 6 anni, poi all’inizio della mia professione  di medico mi sono occupato soprattutto di malati terminali senza  speranza. Forse per questo motivo mi sono intestardito a fare in modo  che la parola cancro non fosse più sinonimo di morte sicura.
Lei  ha curato con successo migliaia di pazienti, altri non ce l’hanno  purtroppo fatta. Secondo la sua esperienza qual è il modo migliore  d’affrontare la morte?
Ho curato 30, forse 50 mila pazienti.  La morte è un fatto naturale: è parte del disegno biologico della natura  che prevede il nascere, il riprodursi e il morire. Così è per ogni  organismo vivente. Se si ha consapevolezza di questo principio, la morte  si affronta con serenità.
Quindi la morte è in qualche modo un dovere?
Sì,  un dovere biologico: è parte integrante del disegno biologico ed è  necessaria per il processo evolutivo della specie. Dobbiamo lasciare  spazio e risorse per le nuove generazioni. Mi viene in mente a questo  proposito José Saramago che in Intermittenze della morte  immagina una comunità dove improvvisamente nessuno più muore, e questo  causa un enorme turbamento e un caos totale, perché il fatto è  assolutamente contrario alle norme della vita.
Però, si diceva per Monicelli, anche un diritto…
Credo  nel principio della responsabilità della vita e nell’autodeterminazione  della persona. Se dunque le civiltà riconoscono il diritto di operare  le scelte fondamentali della propria vita (come il diritto a scegliere  il proprio domicilio, a costituire o non costituire una famiglia e così  via) non vedo perché non devono riconoscere il diritto di scegliere come  concludere la propria esistenza.
In passato si è a lungo parlato di testamento biologico. Ora sembra calato il silenzio, a che punto siamo?
La  richiesta di una legge sul testamento biologico ha portato  paradossalmente a una proposta di legge che, di fatto, lo vieterebbe.  Per fortuna quindi la discussione parlamentare è stata, per così dire,  congelata. Piuttosto che una cattiva legge è meglio nessuna legge e  dunque se non siamo pronti in Italia ad affrontare giuridicamente i temi  di fine vita, meglio lasciare le cose come stanno e rifarsi alle  convenzioni internazionali e al codice di deontologia medica.
Esiste un confine preciso tra terapia e accanimento?
L’accanimento  terapeutico è un ossimoro. Nessun medico «si accanisce» contro il suo  paziente. Certamente è difficile in alcuni casi trovare il punto di  equilibrio tra fare e non fare, ma esiste un prezioso ago della  bilancia: la volontà del paziente. Se si rispetta, il rischio di  ostinarsi in cure troppo invasive o tossiche per il malato è molto  ridotto.
Credenti e laici affrontano diversamente la fine della vita?
Sembra  assurdo, però ho visto morire più serenamente i non credenti. Credo che  il laico si prepari tutta la vita alla morte: ci pensa quando imposta  il proprio progetto di vita sapendo che non ci saranno ulteriori  sviluppi dopo la fine. Invece il credente arriva più spaventato, forse  perché teme il giudizio di Dio.
Lei non ha una grande opinione della religione…
Dico  solo che scienza e fede saranno sempre antitetiche: la prima vive di  dubbi, la seconda presuppone di credere ciecamente in una specie di  leggenda senza il diritto di criticarla o metterne in dubbio dogmi e  misteri.
Tra tante bufale, ci sono oggi scoperte scientifiche che permettono davvero di allungare la vita?
 Pier  Giuseppe Pelicci all’Istituto europeo di oncologia ha scoperto che  abbiamo un gene, il P66, che regola la durata della vita, e che, se  questo viene inibito, la vita si allunga del 20 per cento.
Come funziona?
In  pratica l’invecchiamento è dovuto allo stress ossidativo, ovvero  ossigeniamo troppo le nostre cellule che per questo motivo hanno una  vita misurata. Questo spiega perché l’uomo vive 80 anni, il cane 15 e  l’elefante 150. Il P66 stimola l’ossidazione cellulare che ci vuole, ma  quando è troppo intensa abbrevia l’esistenza. Questo gene può essere  eliminato nel topo ed è dimostrato che allunga la vita, ma non  nell’uomo.
Perché nell’uomo non si può?
Bisognerebbe  toglierlo da un embrione dopo una fecondazione in vitro. Ma è proibito  dalla legge e poi c’è anche un problema etico: vivrà davvero di più  questo bambino? E gli effetti collaterali? Se potessimo manipolare il  genoma umano potremmo fare delle cose gigantesche, anche se penso non  sia giusto.
Gigantesche quanto?
Inserendo nel genoma  umano il fattore della crescita di un elefante avremmo bambini alti  quattro metri. Se un genetista spregiudicato incontrasse una madre  altrettanto spegiudicata tecnicamente si potrebbe fare. Però scriva che  io non sono d’accordo.
Facciamo un gioco: tra un secolo quanto la scienza riuscirà ad allontanare la morte?
La  scienza non si occupa d’immortalità, ma di durata della vita in buona  salute. In ogni caso oltre il limite dei 120 anni non è pensabile  andare.
A proposito d’immortalità e continuazione della specie, lei ha sette figli...
Ecco,  i figli sono l’immortalità, perché faranno altri figli e così la vita  non finisce mai. Il nostro corpo muore ma il nostro Dna continua perché i  figli hanno la stessa carne, lo stesso metabolismo…
Convivere a così stretto contatto con la morte, la nemica che combatte da una vita, come l’ha cambiata?
Io  non ho mai combattuto la morte in sé. Ho combattuto la morte prematura a  causa di una malattia e ho combattuto il dolore sempre, anche nel  processo del morire. Il dolore non ha nessuna utilità, non porta catarsi  né redenzione, quindi va evitato con tutti i mezzi che la scienza  medica mette a disposizione.
La morte si può allontanare ma non evitare. Lei cosa fa per allontanarla?
Soprattutto  si può allontanare la malattia e mantenere una buona qualità di vita  fino alla sua fine. A questo fine io seguo poche semplici regole: non  fumo, mangio poco e vegetariano, soprattutto tengo allenata la mia  mente, perché la nostra età è l’età del nostro cervello.
Siamo in un momento in cui la morte non sembra solo individuale, ma quasi sociale: lei come vede il futuro?
Oggi  viviamo un momento di schizofrenia: il mondo economico è in crisi,  mentre il mondo del pensiero è in evoluzione. Per questo sono ottimista  per il futuro. In 10 mila anni di storia, la scienza ha costantemente  migliorato la nostra vita, superando guerre, carestie e catastrofi, e a  ogni progresso scientifico ha sempre fatto seguito un passo avanti della  civiltà. Non può che essere così anche oggi e la società futura sarà  una società migliore.
            
            ::::::    Creato il : 22/11/2016 da Magarotto Roberto    ::::::    modificato il : 22/11/2016 da Magarotto Roberto    ::::::