Ti parlo da una vita. Ovvero: Donne che non hanno creduto al silenzio di chi non c'è più.
Perché di questo poi, in fondo, si tratta. Quando la sofferenza supera i limiti di contenimento. Quando ti sembra d’impazzire perché vorresti stringere ancora a te la persona -moglie o marito, figlio o figlia, amico o amica, madre o padre- che tanto hai amato e che ti è stata strappata via. Quando vorresti avere ancora la certezza che qualcosa di vero esiste al di là di quello che i tuoi occhi possono vedere.
Stefania Rossotti,
giornalista del settimanale femminile “Grazia”, in seguito alla perdita della sua migliore amica ha deciso di scrivere questo libro: un tentativo di affrontare il dolore attraverso un percorso di conoscenza della morte. Lo fa raccogliendo, a partire dalla sua, la testimonianza di 9 madri che hanno perso i figli e che hanno cercato un modo, un luogo in cui poter ancora comunicare con i loro amati figli.
Al di là delle personali convinzioni, forse bisogna ammettere che questa spasmodica ricerca di un canale di comunicazione è comune a tutti, soprattutto nelle prime fasi di un grande lutto. Ecco perché credo che si dovrebbe leggere il libro senza pregiudizi.
Il tema è considerato “scabroso”, e Stefania Rossotti lo affronta con sincerità unita a impegno professionale: una sorta di inchiesta al’interno del dolore. “Ti parlo da una vita” è un libro sull’amore che non vuole arrendersi.
Il libro
Due amiche, due che si parlano «da una vita». Di tutto, di tutti. Due ragazze-per-sempre, che a cinquant’anni chiacchierano fino a notte in macchina: con i piedi nudi sul cruscotto e la sigaretta in bocca. Quasi due sorelle. Una si ammala e muore. L’altra l’accompagna alla soglia. E resta, di qua dal muro. Decide di non smettere di parlare, forse da sola, forse con lei: perché gliel’ha promesso: «Troverò il modo», le ha detto prima di lasciarla andare.
Questa è la storia dell’autrice che si lega, nel dolore, ad altre storie.
C’è la storia di Gemma, che ritrova la voce del figlio perduto, dopo mesi passati a gridare il suo nome a un vecchio registratore.
E c’è quella di Edda, che nella voce del figlio inciampa, perché è lui a continuare a chiamarla, è lui che vuole dirle dov’è.
C’è Carla, che ha perso una figlia nel terremoto dell’Aquila, e che afferma di credere nell’incredibile per non perdere il contatto con la realtà.
C’è Marta, che riceve ogni anno una rosa dal figlio che non c’è più ma che non ha mai smesso di sentire accanto a sé, e che le racconta, a suo modo, l’esistenza di un aldilà così umano da sembrare terreno, e dunque comprensibile, vicino e bellissimo.
C’è Maria Letizia, che ha chiesto alla figlia le prove della sua esistenza (là dove è ora) per non morire con lei.
C’è la donna che un figlio, quel figlio, non ha voluto metterlo al mondo, ma non ha mai smesso di cercarlo, e lo ritrova in un piccolo paradiso, o forse soltanto dentro di sé.
C’è Monica, che ha imparato dal figlio di 4 anni a piegare la testa, a inginocchiarsi davanti alla morte. L’ha aspettata, in silenzio, poi le ha chiesto, in cambio, parole, segni, simboli. Qualunque cosa: pur di rimanere insieme al suo bambino.
E c’è Annamaria, che dal figlio perduto ha avuto la notizia del figlio in arrivo. E che oggi è una mamma felice, ma non dimentica il bambino che ha perso. Quel bambino che, per certi medici, era «soltanto una bambola di pezza».
Nove storie, più quella dell’autrice, che hanno in comune il bisogno di metabolizzare il dolore attraverso la catarsi offerta dalla parola.
:::::: Creato il : 19/05/2012 da marsala rossella :::::: modificato il : 21/05/2012 da Pozzerle Tommaso ::::::