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Misery details (l'autobiografia nell'elaborazione del lutto / Nicola Ferrari) [06/04/2012]

MISERY DETAILS


L’autobiografia nell’elaborazione del lutto:

racconto terapeutico o esercizi narrativi ?

“Pure autobiografie sono dettate: o da malati di nervi,
sempre confinati al loro Io, e ad essi appartiene Rousseau;

o da un prepotente egocentrismo, artistico o avventuroso,
come quello di Benvenuto Cellini; o da storici nati,
semplice oggetto a se medesimi di storiografia;

o da donne, che civettano colla posterità; o da animi previdenti,
che prima di morire vorrebbero mettere in ordine il più piccolo atomo
di polvere e non possono congedarsi dal mondo senza dare
spiegazioni sopra se medesimi; oppure esse non sono altro che
arringhe di difesa davanti al pubblico.
Una numerosa classe di autobiografi è formata dagli autopseusti (descrittori di se stessi).”

Friedrich Schlegel

I racconti autobiografici delle esperienze dolorose della vita riempiono da anni

gli scaffali delle librerie, molte case editrici pubblicano stagione dopo stagione

numerosi di questi libri e la tendenza è in continua espansione. Queste narrazioni di

sofferenze vissute dall’autore (misery reports) non sono però espressioni

riconducibili esclusivamente ad un’esigenza (per alcuni una moda) letteraria. La

questione infatti è più ampia e complessa e si manifesta compiutamente

nell’approccio narrativo, una metodologia relazionale caratterizzata dal racconto

dettagliato della propria esperienza di sofferenza da condividere con una o altre

persone. Tipico è l’utilizzo di questo approccio nei gruppi di auto mutuo-aiuto, in


alcune modalità di conduzione dei colloqui non clinici, oltre naturalmente alla
scrittura personale.

L’importanza e la positività insite nel raccontare a se stessi e/o ad altri le
difficoltà della vita sono innegabili, al punto che da tempo ormai si utilizza il
concetto di ‘medicina narrativa’ come risorsa nel rapporto medico-paziente, a
testimonianza dell’indubbia efficacia.

L’argomento presenta molteplici aspetti e non può ridursi semplicemente,
come spesso accade, alla glorificazione di questa modalità e all’esaltazione dei
vantaggi per chi ne è l’autore e per chi la condivide. Da anni, nella mia attività di
formatore per operatori professionali e volontari che si occupano di supporto
psicologico a persone in lutto, uso l’approccio narrativo e ne vivo in maniera costante
gli evidenti benefici; non solo: a livello associativo1 l’autobiografia è una parte
consistente del nostro lavoro e si traduce in un concorso nazionale per testi inediti, la
pubblicazione di libri, l’inserimento di storie nel sito oltre ad un servizio di sostegno
a distanza tramite un rapporto epistolare di mail/lettere postali2.

Ma tutto questo non mi impedisce di scorgerne i limiti e i rischi.

Nel libro ‘Medicina e letteratura’ a cura di Sandro Spinsanti, Franco Toscani3 in
un intrigante articolo4 ha analizzato le insufficienze dei misery reports:

-‘racconti faticosi, cronacistici, angoscianti, grevi, melensi, narcisistici, retorici,

insomma illeggibili’

-frutto di ‘sadismo editoriale’

-‘evocano nel lettore il samaritano che è in tutti noi, non lo stimolano a

sporcarsi le mani, reclamano commozione e fratellanza’

-‘non servono per imparare. Ogni esperienza è unica, ogni contesto ospedaliero

o simile è diverso’


1 Associazione Maria Bianchi, sostegno psicologico gratuito alle persone in lutto –www.mariabianchi.it
2 In questo specifico caso l’ autobiografia è inserita in un contesto di scambio tra operatore e utente.
3 Medico anestesista, esperto in cure palliative, Direttore Scientifico della Fondazione Lino Maestroni, Cremona.
4 ‘Misery deve morire’, pag. 249.



-‘sono in realtà romanzi, fiction: non è vita vera perché ci sono scelte di cosa

scrivere’, sono frutto di ‘semplificazione, esaltazione dei personaggi’, vengono

‘tolti alcuni passaggi… non è la realtà’.

Insomma, come scrive Toscani, giocando sul titolo di un famoso film (non a caso
centrato sulla storia di un mediocre scrittore di romanzi gialli di massa che decide di
scrivere un testo ‘serio’ uccidendo l’eroina dei suoi libri), ‘Misery deve morire’.

E’ meglio allora utilizzare buona letteratura, leggere esperti autori di romanzi che,
con i loro personaggi e storie inventate, offrono chiavi interpretative della realtà, e in
questo caso dei vissuti di dolore, molto più intense, affascinanti, riflessive e per molti
versi educative del 99% delle esperienze personali. Si tratta di una conclusione (o una
provocazione) forse eccessiva ma certo, leggendo ad esempio i racconti di Raymond
Carver, le lettere di Emily Dickinson o alcuni famosissimi romanzi, come minimo
non può che sorgere il dubbio. Se però allarghiamo la riflessione non solo al valore
letterario/educativo dei testi autobiografici ma appunto alla più eterogenea e
complicata questione dell’approccio narrativo, allora è necessario aggiungere ulteriori
analisi perché il tema, in Italia da vari anni in espansione esponenziale, è di assoluta
portata.

Innanzitutto il soggetto che scrive o racconta a voce. Quali benefici e svantaggi
ottiene? Appare spesso, dopo una prima fase caratterizzata da aumento del dolore
esistenziale legato al flashback, la diminuzione del senso di angoscia, oppressione e
solitudine che il raccontare determina. Ci si sente ‘alleggeriti’ interiormente, si riesce
a respirare come non accadeva da tempo, non di rado ritorna un po’ di appetito e
diminuiscono i problemi legati al sonno. Poter raccontare di se stessi, della malattia o
problema che si sta affrontando è di certo un aiuto e un’utile esperienza. Ciò che
conta, nello specifico del vissuto di lutto, è:

5 ‘Un cosa piccola ma buona’, da ‘Principianti’, Raymond Carver, Einaudi 2009. La versione di questo racconto è da
preferire a quelle uscite in altri libri perché ripropone il testo com’era stato originariamente scritto da Carver, senza quei
tagli e aggiunte che il suo editore Gordon Lish fece prima di darlo alle stampe.
6 Lettere 1845-1866, Emily Dickinson, a cura di Barbara Lanati, Einaudi 2010


1.
il ricordo della perdita avvenuta: il momento del decesso, il tempo
immediatamente precedente e seguente, i riti successivi, la personalità del
defunto, il rapporto che ho avuto con lui, il suo lascito in me
2.
il lavoro, solo apparentemente formale, di trovare le ‘parole giuste’ per
esprimere tutto ciò che ricordo, sento e penso. ‘Giuste’ non nel senso di
stilisticamente eleganti o originali ma corrispondenti a tutto quello che vive
nella mia memoria e nel mio cuore.
In questa ricerca di un collegamento tra il vissuto interiore e le parole
pronunciate/frasi scritte che riescano ad esprimerlo, risiede il valore
dell’autobiografia nel lutto. È la capacità, cercando la forma buona, di creare una
separazione tra l’io e l’esperienza di perdita che permette un inizio di
differenziazione interiore tra quello che mi sta accadendo e la possibilità di
affrontarlo.

D’altro canto esistono dei limiti in questo processo che vari autori interpretano
come auto-curativo. Manca innanzitutto un punto di vista altro: le dinamiche legate
alla perdita di un mio caro sono sempre e solo quelle che io riesco ad attivare. Non ho
alternative, occasioni diverse di interpretazioni, spunti altri di approfondimento,
manca insomma un qualsiasi tipo di feed-back. Se la persona in lutto è
fondamentalmente una persona in crisi, cioè vive una situazione nella quale non
riesce a trovare una via per uscirne, è chiaro che avere a che fare solo con se stessi e i
propri prodotti emotivo-cognitivi-esperienziali non aggiunge tanto7. Certo, non si può
sottostimare il valore dell’autoanalisi, dell’approfondimento personale di ciò che mi
sta accadendo dentro a livello di emozioni e pensieri ma nel nostro caso abbiamo a
che fare con chi sta vivendo la perdita e quindi si trova in confusione esistenziale,
dominato dal senso di vuoto e abbandono, spesso con sensi di colpa, rabbia nei
confronti del defunto, crisi progettuali e tutta una serie di dinamiche che ognuno ben

7 Nei gruppi di auto mutuo-aiuto sono certamente presenti numerosi scambi di riflessioni ma provengono tutti da
persone in situazione di smarrimento esistenziale di diverso livello: spesso sono quindi interventi sui quali il facilitatore
deve intervenire per mediare, arricchire, far emergere alcuni aspetti a scapito di altri…


conosce. Un individuo sereno, lucido, riflessivo ha ottime possibilità di trarre grande
beneficio dalla sua autobiografia. Diverso, molto diverso, per chi invece non lo è.

Anzi, può essere addirittura controproducente e aumentare il disagio continuare a
ricordare-rivivere-risentire, durante l’atto di scrittura, i momenti così difficili relativi
alla perdita subita.

E poi i ricordi: censure, omissioni, tagli, sono aspetti assolutamente comuni e
altrettanto comprensibili. Da soli, di fronte ad una tastiera o ad un foglio bianco,
probabilmente nella casa dove si è vissuti con chi ora non c’è più, immersi a
ripensare il defunto, in un contesto complessivo di intensa fragilità emotiva: come
può tutto questo non incidere nella scrittura e condizionare quali memorie scrivere,
quali rievocazioni trasformare in frasi e racconti? La stessa oggettività dei ricordi è
sovente debole: fantasmi e sogni riempiono i racconti autobiografici. Certo, ciò che
conta non è il dato oggettivo fine a se stesso ma come viene interpretato e rivissuto
dall’autobiografo ma non dobbiamo dimenticarci che siamo in un contesto di intensa
alterazione della vita. Quale alternativa può rivelarsi ad una persona in lutto per
cercare di stare meglio, per modificare la vita se ripercorre quelle stesse pene che
sono causa del suo dolore? Tanto dipende dal punto di vista che si sceglie nel
raccontarsi: è chiaro quindi che dall’arbitrarietà di questa scelta discende il rischio di
resoconti settari, tendenziosi, non obiettivi. Dovrebbe invece crearsi ‘una specie di
armonia tra l’esperienza esterna e l’evoluzione interna, tra gli eventi della vita e la
loro assimilazione spirituale, sì che ogni circostanza ed ogni evento divengono parte
di un processo e di una rivelazione di qualcosa all’interno della personalità, invece di
apparire come fatti estranei’8 Ogni autobiografia è ovviamente il riflesso del suo
artefice: ma quando l’autore stesso soffre, è turbato ed in ansia, diventa complicato
trarre effettivi benefici da questa scrittura o racconto orale, a parte quelli che si
nominavano precedentemente.

8 ‘Teorie moderne dell’autobiografia’, a cura di Bartolo Anglani, 1996, Edizioni Graphis, pag 24


Perché i ricordi-chiave nel lutto possano formare un racconto autobiografico
terapeutico (scritto e/o orale) è necessario allora che siano:
-reali, non nel senso di avvenimenti oggettivamente accaduti ma di eventi
passati che hanno senso nel presente per l’autore
-attivi, in grado cioè di accordarsi e prendere forma per dare valore ad una storia
che si sta ricostruendo
-efficaci, cioè stilisticamente scritti in una forma che traduce con utilità, per il
biografo, la storia vissuta.

Ma l’autobiografia è una modalità che, sperimentata quando si soffre, è dominata
dall’ansia e dall’autoinganno e la possibilità di utilizzare ricordi reali/attivi/efficaci di
un proprio caro deceduto diventa alquanto improbabile. Ciò che alla fine importa
invece è la capacità di riscrivere narrazioni secondo nuove linee interpretative che
però con grande difficoltà riescono ad imporsi all’autore: l’attività autobiografica
infatti si accentra tutta intorno all’Io, al desiderio di scandagliare, di analizzare, di
risolvere un processo elaborativo di assoluta fatica e pena. E quando l’Io soffre, tutto
il processo autobiografico ne risente. Ma non solo: viene a mancare lo stimolo alla
dimensione sociale del lutto, alla possibilità cioè di aprirsi al mondo esterno come
rifugio e risorsa nel periodo di sofferenza. Se la perdita si elabora anche attraverso il
divenire del dolore, quando da questione privata si apre ad una dimensione sociale e
comunicabile, è l’autobiografia ad eliminare a priori questo passaggio, ad esclusione
dei casi nei quali viene poi divulgata (ma se si tratta di libri veri e propri, i tempi che
intercorrono tra l’evento luttuoso e la disponibilità del testo edito sono sovente troppo
lunghi per portare poi benefici reali durante la fase di diffusione e confronto con
l’esterno).

C’è poi l’interessantissima questione della costruzione della narrazione come
vero significato e valore delle scritture autobiografiche: “in fin dei conti ciò che
importa non è se la narrazione si riferisca al mondo reale o se venga raccontata ‘come
se’ fosse realmente accaduta, perché il presupposto ideologico rimane lo stesso. Ciò


che conta è la costruzione della narrazione, giacché i dati possano venir ‘resi’ fattuali,
possano essere sistemati in una forma fattuale (come nel romanzo realistico), dandoci
l’apparenza di una simile conformità al vero. Una sequenza di eventi che sia
verosimile non è diversa da una sequenza che si verifichi realmente: nell’analisi
conclusiva entrambe le sequenze vengono prodotte da una consapevolezza profonda
nella sua comprensione del mondo materiale.”9 Questo vale anche nel lutto: non
importa, entro ragionevoli limiti, ciò che è realmente successo dopo la morte ma
come è stato vissuto dal soggetto. Il problema sta nella ricostruzione scritta del
vissuto soggettivo e situazione analoga si presenta durante i colloqui o nei gruppi di
auto mutuo-aiuto dove la ricomposizione è orale. Per approfittare del valore
dell’autobiografia devo “tradurre i movimenti incoerenti della vita nelle scansioni
regolari del racconto”10; si tratta di sequenze e concatenazioni, fondamentali per dare
ordine e priorità alle mie devastazioni interiori: “il programma di recupero deve
essere guidato da criteri di pertinenza, da una specie di ‘teoria’ sui modi in cui i fatti
isolati di una vita riescono a trovare la propria coerenza. Questa teoria (o trama
narrativa) non tanto seleziona i cosiddetti fatti, ma piuttosto li crea ed in seguito li
organizza. I ‘fatti’ si potrebbe dire sono in parte creati, in parte trovati.”11 La
condizione esistenziale dell’autobiografo in lutto è tale da rendere altamente
improbabile la possibilità di creare da solo questa trama (è proprio la mancanza di
pertinenza, coerenza e senso sui fatti avvenuti a mettere in crisi il soggetto).

Non si tratta però solo di successioni e interdipendenze: creare un racconto che
abbia valore terapeutico per l’autore e non esercizi narrativi di esperienze funeste,
implica saper utilizzare il linguaggio per la costruzione del testo/ricostruzione del
vissuto. E’ indispensabile la capacità di avvalersi della lingua scritta/orale, come
sottolineavo all’inizio riferendomi alla ‘forma buona’, di usare consapevoli
convenzioni letterarie che traducano movimenti interiori, intuizioni etiche, ipotesi
socio-comportamentali. Nulla importa dell’abilità stilistica fine a se stessa, non serve

9 Ibidem, pag. 11810 Ibidem, pag 125
11 Ibidem, pag 161


essere autori professionisti, avvezzi da anni alla scrittura o fini oratori: ho letto decine
di splendidi racconti autobiografici nel lutto chiaramente redatti da chi ha una
conoscenza semplice della lingua italiana scritta. Ma conta assolutamente la capacità
di traduzione formale di ciò che mi angoscia cuore, anima e mente: e questa capacità
prevede una competenza tecnica che non può essere minima. Semplice ma non
minima. Perché quando questo accade, e sono centinaia le autobiografie così
costruite, il racconto diventa pura cronaca, la capacità di riflessione è imbarazzante,
la retorica e banalità hanno il sopravvento. Perde, o almeno diminuisce assai, il valore
di questa operazione per lo stesso autore che si ritrova ad avere tanto pianto e sofferto
scrivendo/ricordando, con varie memorie ora certamente fissate sulla carta e quindi
cancellate dal rischio dell’oblio ma, alla fin fine, nulla più.

L’autobiografia nel lutto quindi come possibilità non per tanti e a condizione
che il processo elaborativo di ricostruzione esistenziale sia già in fase avanzata o
comunque tale da permettere una prima, anche limitata ma presente separazione e
distanza tra la persona e l’evento drammatico. Che fare allora per oltrepassare questi
confini? Quando riceviamo i racconti di chi sta vivendo un dramma personale per la
morte di un proprio caro, nella fase caratterizzata dalla presentazione più o meno
dettagliata di ciò che è successo, la persona spontaneamente spiega il dolore che sta
vivendo. O almeno crede che di questo si tratti. Perché le parole sono poche e banali,
le frasi brevi e scontate, le emozioni e i concetti ripetuti più volte. Non si tratta di
incapacità ad accedere agli aspetti più profondi e caratteristici di se stessi (eccetto
situazioni di lutto bloccato o traumatico) ma della mancanza di strumenti per
esprimerli. E ciò che non si comunica, non diviene .

È questo il motivo per cui si rivela necessario e urgente introdurre la
‘narrazione guidata’: una modalità che si inserisce pienamente all’interno della
metodologia autobiografica, arricchendola con gli stimoli che di volta in volta
vengono offerti alla persona in lutto e che, in una costruzione dialogica di significati
tra le persone coinvolte (autore del testo e lettore che dialoga con l’autore), si


vengono reciprocamente ad attivare. Si creano così una serie di elaborazioni e
ricostruzioni condivise dell’evento traumatico, in maniera del tutto dettagliata e
relativa alle conseguenze interiori, spirituali, cognitivi e sociali della perdita subita.
Come associazione stiamo lavorando da anni per verificare sul campo e dettagliare
metodologicamente questa nuova modalità narrativa da usare nella scrittura, nei
gruppi ama e nei colloqui: al punto in cui siamo ora ci sembra di disporre di una
serie di esperienze vissute e riflessioni sul metodo tali da poter offrire pubblicamente
questo apporto per arricchirlo di riflessioni, critiche e stimoli di chiunque ne fosse
interessato. Ed è quello che faremo presto.

Nicola Ferrari
Sostegno psicologico gratuito alle
persone in lutto, Associazione Maria
Bianchi



 


::::::    Creato il : 06/04/2012 da Magarotto Roberto    ::::::    modificato il : 06/04/2012 da Magarotto Roberto    ::::::