Shakespeare era un maestro nel ritrarre il profondo turbamento emotivo e i sintomi fisici provati dai suoi personaggi. Una sorta di psiconeuroimmunologo ante litteram, tanto che molti medici moderni farebbero bene a studiare, insieme ai volumi di anatomia, anche le opere di Shakespeare per comprendere meglio il legame fra mente e corpo.
E' quanto emerge da un'analisi pubblicata su 'Medical Humanities'.
Kenneth Heaton, medico del North Somerset (GB), ha sistematicamente analizzato 42 fra le principali opere di William Shakespeare e 46 lavori di scrittori suoi contemporanei, alla ricerca della descrizione di sintomi psicosomatici.
Il ricercatore si è concentrato, in particolare, su sintomi diversi da quelli relativi a vista, gusto, cuore e intestino, scoprendo così che la descrizione shakespiriana di segni come vertigini/debolezza, sensibilità ridotta o amplificata a tatto e dolore nei personaggi preda di forti emozioni è significativamente più comune nei suoi lavori che nelle opere di scrittori coevi.
Capogiri e vertigini sono descritte in cinque personaggi maschili de "La bisbetica domata", "Romeo e Giulietta", "Enrico VI", "Cymbeline" e "Troilo e Cressida", contro un solo caso analogo nelle opere dei suoi contemporanei.
E ancora: ci sono almeno 11 casi di dispnea associata a emozioni violente ne "I due gentiluomini di Verona", "Il ratto di Lucrezia", "Venere e Adone", e "Troilo e Cressida", rispetto ad appena due episodi nelle opere di altri autori.
Affaticamento e stanchezza a causa di dolore o disagio sono sensazioni familiari per i personaggi di Shakespeare, in particolare le ritroviamo in "Amleto", "Il Mercante di Venezia", "As You Like It", "Riccardo II" e "Enrico IV"; e sono almeno due volte più frequenti che nelle opere di altri autori suoi contemporanei, sostiene Heaton.
Anche l'udito disturbato in un momento di grandissima emozione è descritto in "Re Lear", "Riccardo II" e "King John", mentre una percezione sensoriale attenuata o esagerata è ben tratteggiata in "Molto rumore per nulla", "Venere e Adone", "Re Lear", "Pene d'amor perdute" e "Coriolano".
La percezione di Shakespeare che l'intorpidimento o una sensibilità acuita possano avere un'origine psicologica sembra non essere stata condivisa dai suoi contemporanei, nessuno dei quali ha incluso questi fenomeni nelle opere esaminate", scrive lo studioso.
Shakespeare utilizza anche la freddezza, per esempio in "Romeo e Giulietta", e la debolezza per descrivere uno shock, in "Tito Andronico", "Giulio Cesare", "Pene d'amor perdute" e "Riccardo III", con una frequenza significativamente maggiore rispetto ad altri scrittori dell'epoca.
Insomma, a conti fatti e prove alla mano Heaton 'promuove' Shakespeare a pieni voti e conclude che i dati dimostrano che Shakespeare "era uno scrittore straordinariamente consapevole" del legame fra il corpo e la mente. Tanto che proprio questa abilità renderebbe i suoi personaggi più umani, regalando alle sue opere una maggiore empatia e rendendo le emozioni descritte più coinvolgenti.
Questi risultati dovrebbero incoraggiare i medici a ricordare che "i sintomi fisici possono avere cause psicologiche", suggerisce il ricercatore. "Molti camici bianchi sono riluttanti ad attribuire sintomi fisici a disturbi emotivi, e questo si traduce in diagnosi ritardate, eccesso di indagini strumentali e trattamenti inappropriati", scrive l'autore.
Insomma, "si può imparare a essere medici migliori studiando Shakespeare.
Una cosa importante, perché i cosiddetti sintomi funzionali sono la causa principale delle visite dal medico di medicina generale e del ricorso agli specialisti", conclude lo studioso.
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