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Saper trovare la leggerezza nel dolore [26/01/2012]

Come è  possibile accostare la parola leggerezza alla parola cancro? Come è possibile ostinarsi a cercare la leggerezza anche quando tutto sta crollando, quando tutto sta andando verso la fine temuta e combattuta fino all'ultimo? E' possibile, si può fare. Questa bellissima testimonianza scritta da Francesca sulla pagina Facebook di Ageop ci fa toccare con mano la sua esperienza, in un racconto breve molto toccante ma che può essere per tutti fonte di ispirazione.

 

“Vivo in una specie di sogno, cerco disperatamente il giusto modo di raccontare una storia che mi affascina per l’assoluta impossibilità di raccontarla bene…….tutto dovrebbe apparire come attraverso un velo di luce lunare” C.Morley

 

E’ possibile la leggerezza quando tuo figlio si ammala di cancro e, nonostante due anni di chemioterapie, radioterapie e tre autotrapianti, muore? Ebbene, assurdamente e follemente, mi sento di rispondere SI’, con tutto il fiato che ho in gola.

Ci sono momenti di terribile pesantezza. Quello della diagnosi iniziale dove il dolore è pesante, la realtà, la testa, le gambe, la vita sono talmente pesanti da mettere in dubbio la possibilità di sopravvivenza. E così certe colate laviche che ti scendono giù dalla gola nel cuore e nello stomaco da farti credere che i tuoi organi infuocati subiranno un prolasso, tanto li senti pesanti; questo l’ho provato tutte le volte che una Tac, una risonanza o un colloquio con un medico mi hanno messo davanti ad una realtà atroce. Ma poi uscivo dall’ambulatorio o dallo studio medico e fuori ad aspettarmi c’era Nicolò, così deglutivo e per lui mi scrollavo di dosso tutto. Diventavo forte, incosciente, allegra, stringevo la sua mano paffuta e mi sentivo leggera e quasi euforica perché lo avevo ancora e potevamo tornare a casa, e avevamo ancora un mucchio di cose da fare e motivi per essere felici.

 Se racconto la nostra esperienza non è per dimostrare che noi siamo stati più bravi, ma perché sono convinta che si possa pensare alla leggerezza come ad uno dei traguardi dell’alleanza terapeutica.

Nonostante razionalmente sapessi che la percentuale di possibilità di sopravvivenza fosse qualcosa di astratto, così labile di fronte ad un rabddomiosarcoma al diaframma, il dover convincere Nicolò, suo padre e le sue sorelle che potevamo farcela, alla fine convinceva anche me.

E così ridevamo di tutto, del “microbone” cattivo che dovevamo sconfiggere, dell’operazione alle tonsille scampata grazie alla chemio che le aveva fatte regredire….. Così quando vidi “La vita è bella” di Benigni capii che quella era la strada giusta da percorrere, una visione surreale di ciò che ci stava accadendo e che rendesse inoffensivo quel microbone terribile.

 L’aiuto delle psicologhe del reparto è stato fondamentale per tutta la famiglia: ha rappresentato un supporto per Nicolò, soprattutto durante i periodi d’isolamento, ha aiutato le sue sorelle fin dall’inizio a conoscere, a capire, a crescere; per noi genitori è stato il contenimento e il confronto necessario per procedere nei momenti più difficili.

La serenità della famiglia dava positività e forza a Nicolò, che sua volta ci rincuorava. Vedere un bambino che si considera sempre fortunato allevia notevolmente la sofferenza di chi lo circonda. Lui non si è mai ritenuto malato e chiedeva “perché mamma mi mettono sempre in camera con bambini che stanno male?” perché l’unica cosa che non poteva vivere con leggerezza e che gli pesava era la sofferenza fisica e psicologica degli altri bambini.

Quando un suo amico fu ricoverato in ospedale per operarsi di adenoidi ed essere  circonciso Nicolò ha detto: “ Accidenti, lui sì che è sfortunato! Ma con quello che ha avuto potrà venirci a trovare al mare?”.

Poter vivere con leggerezza ha implicato per noi il trovare il giusto equilibrio tra il senso di realtà,  necessario per affrontare con la dovuta responsabilità le cure, le loro conseguenze, senza rendere completamente medicalizzata la vita del bambino, e il distacco un po’ epicureo che permette di farlo vivere con serenità e “normalità”, rispettando il suo essere bambino.

 I ritmi serrati delle cure non gli hanno permesso di frequentare la scuola, ma la scuola gli è andata incontro, ed è stata per lui importantissima, sia in ospedale con le maestre del reparto, che a casa, dove veniva un’altra insegnante. Gli ha fornito stimoli, impegno e progettualità.

Nei momenti di benessere abbiamo vissuto normalmente cercando di fargli fare il maggior numero di cose possibili.

Per portarlo al mare senza impedirgli di fare il bagno, per non infettare il catetere centrale, gli abbiamo comprato una muta, maschera, pinne e boccaglio e lo abbiamo trasformato in un perfetto sub, così l’handicap del cvc si è trasformato in un gioco di cui era orgoglioso: tutti i bambini della spiaggia gli invidiavano l’attrezzatura, anche perché a Riccione i subacquei non abbondano.

E gli animali? Quale bambino non desidera avere un cane o un gatto? A molti pazienti oncologici è negato il rapporto con un animale per paura che portino infezioni. Ma quante e quali sono le zoonosi trasmesse da cani e gatti?

Un animale controllato, senza parassiti interni né esterni, senza micosi, non portatore di toxoplasmosi, può portare gioia, amore e compagnia ai bambini, soprattutto se malati. Noi ne avevamo già, ma non ho esitato, proprio uscendo dal day hospital, a raccogliere una gattina caduta nel sotterraneo del S.Orsola, per la cui liberazione Nicolò ed io abbiamo impiegato un’intera mattinata, divertendoci moltissimo.

Mitigando le ansie e ridimensionando le apprensioni si libera il bambino e tutta la famiglia da un senso di espiazione esagerata. Si affrontano meglio i ricoveri e le terapie, perché si sa che quando finiscono tornano i momenti belli:quindi si vivono con più distacco.La malattia e le cure non pervadono tutta la vita, ma restano parentesi, se pur lunghe o frequenti. Cercare di non far fagocitare l’intera vita famigliare dalla malattia oncologica credo sia un obiettivo perseguibile, che non crea insubordinazioni e interferenze alle vie terapeutiche, ma, anzi, rinsalda, attraverso il dialogo e il confronto continuo con tutte le sue componenti, l’alleanza terapeutica.

Questo distacco permette anche una lucidità maggiore nei confronti delle esperienze degli altri, lucidità che ho sempre sperato di conservare fino alla fine, per riuscire a lasciarlo andar via, quando sarebbe arrivato il momento, senza egoismo, senza cercare di trattenerlo ancora un po’ con noi.

Così quando quel momento è arrivato con la ripresa impietosa e devastante della malattia, abbiamo deciso di non fare più nulla, nessuna radioterapia e nessuna chemio   avrebbe potuto contrastare il microbone, avrebbe solo aumentato i giorni di vita.

Ma quale vita? Nicolò ne aveva abbastanza di ricoveri ed era orgoglioso dei capelli ricresciuti e dell’appetito ritrovato, per lui entrambi sinonimi di salute.

Avevamo trovato un nuovo gattino, Lamberto, che per lui era un grande amico e non li avrei mai separati! Così con l’aiuto dei medici della clinica e l’assistenza domiciliare di una dolcissima dottoressa dell’Ant ci siamo organizzati a casa. In quei due mesi Nicolò ha giocato, visto gli amici, è andato al cinema e in pizzeria; al minimo dolore nuovo che saltava fuori aumentavamo la morfina, man mano che i suoi ritmi rallentavano, trovavamo motivi per rallentare i nostri così da riuscire ad essere sempre una grande famiglia.

Negli ultimi cinque giorni la situazione è precipitata, così ha avuto bisogno d’ossigeno costante per respirare, “Accidenti ci hai fatto prendere una gran paura- gli ho detto- invece hai solo un attacco d’asma” abbiamo sospeso qualsiasi aiuto per stimolarlo, non l’abbiamo trasfuso. Abbiamo continuato a progettare con lui la festa di Hallowen, la lista dei regali di Natale, un’immensa pizza ai wurstel al posto della torta di compleanno, e tutto quello che avremmo fatto quando sarebbe stato meglio. Mentirgli è stata forse la mia fatica più grande.

Mi frullava in mente una frase di Calderon “noi siamo fatti della stessa sostanza dei sogni” e a quella mi sono aggrappata in quei pochi giorni: ho solo cercato di farlo sognare.

L’ultimo giorno non si è reso conto del suo aggravamento perché, grazie ai farmaci, ha sempre dormito, …ma ancora si toglieva i tubini dell’ossigeno per mettersi le dita nel naso…..era ancora un bambino come tutti. Così se n’è andato, nella sua stanza insieme a noi, con i suoi giochi, il suo gattino Lamberto sul letto, ascoltando il concerto per corni ed archi di Mozart.

Non ho voluto fargli il funerale, non mi sembrava adatto a un bambino, sarebbe venuta tanta gente di cui non gli importava nulla.Per tutta la famiglia sarebbe stato un rito troppo pesante da vivere invece della testimonianza d’amore che volevamo dargli.

E’ rimasto due giorni nel suo lettino, vestito con un orrendo completo Hawaiano che gli piaceva moltissimo…è stato tutto molto dolce e naturale anche per le sue sorelle.

Il giorno in cui è uscito da casa, Padre Riccardo, suo grande amico del reparto, indomito barzallettiere e giocatore di tris, ha detto una preghiera, e tutte le persone importanti per lui (compresa la giocattolaia che ha chiuso il negozio per l’occasione) gli hanno letto una storia o una poesia e fatto un piccolo regalo da portare con sé.

Non avrei potuto metterlo sotto terra, quelle antiche reminiscenze carducciane “ sei nella terra fredda sei nella terra negra…” me lo impedivano; così è stato cremato per diventare qualcosa di leggero, vapore o cenere che potesse volare.

 

Testimonianza di mamma Francesca .......dieci anni fa

pubblicata da AGEOP RICERCA il giorno mercoledì 25 gennaio 2012 

 

 

 



::::::    Creato il : 26/01/2012 da marsala rossella    ::::::    modificato il : 26/01/2012 da marsala rossella    ::::::
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