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emiliano mondonico : ho combattuto la partita della vita [28/11/2011]

fonte : corriere fiorentino 

l'intervista

«Così ho vinto la bestia
nella partita della vita»

Emiliano Mondonico: «Ora posso dirlo, sono riuscito a battere il tumore. Torno al Franchi contro il Milan per ringraziare il popolo viola»


 

 

Dopo mille battaglie, sballottati dal vortice nel frullatore che separa la vita dal non essere più su questa terra, è possibile dare un annuncio clamoroso e liberatorio: la guerra è vinta, la «bestia» annientata. Nella clessidra personale di Emiliano Mondonico, la sabbia torna a scorrere, come il sangue buono nelle vene e i pensieri positivi nel cervello. «Due giorni fa gli esami clinici sono stati definitivamente chiari. Non ho più il tumore che aveva messo in serio pericolo la mia vita. Ora, finalmente, potrò tornare all'esistenza di tutti i giorni. La mia famiglia, soprattutto. Poi il mio lavoro che significa pallone e Albinoleffe. Ma, in particolare un'opera missionaria in tutte le sedi più opportune per informare il prossimo che vincere è possibile anche contro certi mali che sembrano imbattibili. Come? Attraverso la prevenzione che rimane l'arma più efficace». Emiliano Mondonico non ha mai avuto dubbi sul che cosa dover fare. Anche per questo oggi è un uomo vivo che ha saputo e voluto esorcizzare la morte.

Cancro, una parolaccia che sa di bestemmia.
«Nel mio caso tumore. C'è una differenza, sottile ma fondamentale. Il cancro è come il mostro di Alien che ha ormai completato il suo terribile lavoro di devastazione. Il sarcoma, quello che stava nella mia pancia, era una bestia certamente schifosa ma non ancora vincente. Batterla estirpandola era possibile. Ce l'abbiamo fatta».
Perché parla al plurale, Emiliano?
«Un gioco di squadra per la vita. La mia vita. Il sottoscritto, naturalmente, e i chirurghi che mi hanno operato. Anche il primo che, dopo avermi aperto la pancia, dovette farsi forza e coraggio per non rinchiudermi senza portare via quella massa ammalata di grasso e di carne già morta. Sembrava non ci fosse proprio più nulla da fare. Che sarebbe stato tutto inutile».
Invece?
«Invece venne osato l'impossibile. Poi non restava che aspettare».
La misero al corrente di tutto quel che stava accadendo?
«Assolutamente sì. Nei minimi particolari».
Quale fu la sua reazione?
«Lipperlì, di autocensura. Come se quello fosse un problema che riguardava un'altra persone e non il sottoscritto. Francamente non ebbi neppure il tempo di pensare. Mi operarono il lunedì e io la domenica successiva ero seduto sulla panchina dell'Albinoleffe per fare il mio lavoro, come sempre». Coraggio o incoscienza?
«Un perfetto mix di entrambe le cose che mi sostenne sino all'intervento chirurgico successivo. Un mese dopo». Stessa diagnosi? «Peggio. La bestia era andata a nascondersi dietro il rene destro e parte della schiena. Via quel rene e anche il colon. Ma non bastava ancora. Per rimuoverla sarebbe occorsa una terza operazione».
Che lei non volle fare, mi pare.
«Non nei tempi che avrebbero desiderato i medici. Insomma, chiesi loro se sarebbe cambiato qualcosa nel caso avessi deciso di terminare il campionato con i miei ragazzi. Mi risposero che, a quel punto, avrei potuto aspettare. E così feci, arrivando almeno alla salvezza per l'Albinoleffe».
Ma come faceva a lavorare in quelle condizioni fisiche e soprattutto psicologiche?
«Vuol sapere una cosa? Proprio scendendo sul campo degli allenamenti, tutti i giorni, ogni calcio che davo al pallone equivaleva ad una pedata violenta in faccia alla bestia. Non dico che il calcio, in questo caso, abbia sostituito la medicina ma, dentro di me, mi piace pensarlo».
I suoi giocatori erano al corrente di tutto?
«Ufficialmente no. Così come neppure i dirigenti. Perlomeno non lo erano rispetto ai dettagli. Però, mi accorgevo dall'espressione dei loro volti e dalle mezze frasi sussurrate che in buona sostanza sapevano anche se io mi sforzavo di apparire quello di sempre. Eppoi, anche a livello pratico intuivo che tutti loro stavano dando il meglio di se stessi. Insomma il grande amore per il pallone ha fatto io modo che io non sbroccassi di testa e che l'Albinoleffe arrivasse alla salvezza».
Fino a due giorni fa...
«Ero a un passo dalla verità. Due piccole palline mi erano rimaste dentro. Sono state tolte anche quelle. Ora so. Ora è andata. Occorreva pazienza e l'ho avuta. Io e tutti i miei cari. Mia moglie, le miei figli, i miei amici».
Una qualità, la pazienza, non sempre agevolmente frequentabile per chi deve fare i conti con certe malattie.
«Però indispensabile, insieme con la fiducia. Vede, la chirurgia ha fatto passi in avanti da gigante e certe guarigioni non sono più frutto di miracoli. Due miei ex compagni del Torino, Pulici e Cereser, hanno avuto più o meno il mio stesso problema e ora stanno benissimo. Don Ciotti da anni combatte e vince con la malattia. La chiave di tutto sta nella parola prevenzione. Se identificata al momento giusto ed estirpata in tempo la bestia può essere annientata. Io credo di essere stato fortunato per aver incontrato medici e chirurghi di eccellenza anche sotto il profilo dell'assistenza psicologica. Ieri, ad esempio, ho cercato di sdebitarmi parzialmente con loro, nel mio piccolo e a modo mio».
Sarebbe a dire?
«Un bel pranzo, consumato in allegria nella mia casa di Rivolta per tutti i medici che mi hanno seguito e per le loro famiglie. Bollito a volontà e buon vino rosso».
Ha mai pensato, anche soltanto per un momento, che potesse esserci un legame tra la sua malattia e taluni casi di malcostume professionale uno dei quali, per esempio, sembra aver costretto Borgonovo su una carrozzella?
«Assolutamente no. Non per quel che mi riguarda, almeno».
È stranamente, un momento di drammatica convivenza tra lo sport e il dolore. Lei, Gattuso, Cassano...
«Soprattutto Simoncelli, povero figlio. È vero. Ma anche l'altra faccia della medaglia va presa in considerazione. Ovvero il grande amore che la gente ha voluto mostrare per tutti quelli che lei ha menzionato. E il motivo è semplice. Sono e siamo uno di loro, del pubblico intendo. Mai sussiegosi o spocchiosi. La genuinità dei sentimenti paga sempre».
Il calcio pane e salame un po' meno, però.
«Oggi, forse. Vede, l'altro giorno in treno leggevo un quotidiano. Ebbene, nelle prime venti pagine non ho trovato una sola notizia positiva di quelle che dovrebbero servire a regalare alla gente un minimo di serenità. Evidentemente fa comodo a tutti annegare in un mare di negatività per non dover pensare ai nostri piccoli guai quotidiani. Ma non è così che funziona, Perlomeno non dovrebbe essere così». Fortunatamente c'è il gioco della memoria al quale aggrapparsi, ogni tanto e nei momenti di maggior sconforto.
«Per quel che mi riguarda, sotto questo profilo mi sento sul serio un privilegiato. Le dimostrazioni di affetto che mi arrivano dal popolo viola e da quello granata sono eccezionali. Ma non solo. Da tutta Italia e persino dal tifosi juventini, per uno come me che sono l'antibianconero d'eccellenza, ricevo parole bellissime di grande sostegno morale. Tutto ciò mi porta a pensare ciò che ho sempre saputo: lo zoccolo duro del calcio sa ancora vivere di sentimenti autentici».
Quando tornerà a Firenze?
«Il giorno diciannove di questo mese. In occasione di Fiorentina-Milan e per la presentazione di un libro sulla viola. Mi rincresce soltanto che probabilmente non ci sarà il presidente, Andrea, mi hanno detto che potrebbe essere impegnato all'estero. Lo avrei rivisto volentieri».
Ma, sia sincero Mondonico, perché lei tifoso viola e iscritto al «7 Bello» dal 1987 con la tessera numero 72 lasciò la sua Fiorentina dopo averla riportata in Serie A? Eppure poteva contare su ragazzi emergenti come Chiellini, Maggio, Miccoli...
«Firmai in bianco da vero... tifoso. Troppo tifoso. Le cose non andavano bene per mille motivi e io non potevo far finta di niente. Così, per evitare di far casino, preferii chiamarmi fuori. Lo dissi chiaro e tondo ai dirigenti, sottolineando il fatto che non ero più un ragazzino».
La gente stava con lei, a differenza di quel che è accaduto per Mihajlovic.
«Esistono luoghi del calcio assolutamente particolari. La Torino granata, per esempio, o la Bergamo nerazzurra. Firenze fa parte di questo bellissimo pianeta dove, per fortuna, esistono ancora realtà emotive da riserva indiana. Chi decide di lavorare in questi posti deve essere al corrente di quel è lo spirito che governa queste piazze. Dunque, secondo me, Mihajlovic da persona intelligente e da bravo allenatore qual è avrebbe dovuto fare ogni sforzo possibile per adeguarsi lui all'ambiente e non viceversa. Del resto il solo tecnico in Italia che può permettersi di agire all'incontrario per la serie o come dico io o niente è Zeman».
Prandelli e la nazionale. Una bella soddisfazione anche per lei, Mondonico.
«Direi proprio di sì. Cesare, insieme con Cabrini, fu un poco il mio allievo alla Cremonese. Poi ci ritrovammo a Bergamo e divenni un poco il suo mentore. Oggi è arrivato dove merita, come uomo e come professionista, a conferma dell'antica regola secondo la quale l'allievo supera il maestro».

Marco Bernardini

novembre 2011

 


::::::    Creato il : 28/11/2011 da Magarotto Roberto    ::::::    modificato il : 28/11/2011 da Magarotto Roberto    ::::::
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