di Franco Marcoaldi, la Repubblica, 01/09/2010
Bohumil Hrabal sosteneva di non essere uno scrittore, ma piuttosto un "trascrittore" che trasferiva nei propri libri le tante storie ascoltate in birreria. Nel suo La cotogna di Istanbul (Feltrinelli, pagg. 184, euro 16), Paolo Rumiz pare seguire il medesimo procedimento e indossare i medesimi panni.
L'ingegnere austriaco Max Altenberg ha raccontato infinite volte la sua straordinaria vicenda d'amore con Masa, musulmana di Sarajevo. E nella folla di ascoltatori che in lungo e in largo per l'Europa sono stati colpiti da quelle infiammate parole, c'era anche lui, Paolo Rumiz. Il quale ha ripetutamente chiesto ad Altenberg di mettere per iscritto una vicenda che vede intrecciarsi secoli di storia burrascosa e la forza di un amore disperato, inafferrabili visioni arcane e la realtà atroce della guerra e della morte, paesaggi maestosi e intimità domestiche.
Ma non c'è stato verso: Max riteneva che la potenza della storia fosse legata alla trasmissione orale; come accadeva in tempi lontani, quando la voce prevaleva sulla parola scritta. E chi ascoltava non era meno importante di chi narrava, sì che alla fine tutto si trasformava in mito. E i confini tra vero e falso si confondevano tra loro, mentre nell'animo di ciascuno rimaneva, prima ancora che il significato letterale delle singole parole, un canto. Come è giusto che sia in presenza di una vicenda che proprio da una struggente canzone bosniaca prende il largo.
Una volta morto Max, però, Rumiz decide che quell'eredità non deve andare perduta. Si assumerà lui la parte del trascrittore. Lui darà voce a quella trascinante cadenza poetica, scegliendo per questo la forma di una ballata capace di far filtrare dall'imbuto della storia anche l'odore più tenue, il suono più leggero, la parola più remota. Capace di far riemergere dal passato figure leggendarie: a cominciare dalla nonna di Masa, Ljuba, morta nel lager croato di Jasenovac, dove è stata internata per avere aiutato i partigiani. Tra i quali militava anche il genero Muhamed, papà di Ma¿a, che nella battaglia della Neretva si scontrerà senza saperlo con il padre di Max, capitano dell'esercito tedesco.
Dovranno passare più di cinquant'anni prima che ne vengano a conoscenza i rispettivi figli, conosciutisi casualmente a Sarajevo nel 1997, a due anni da quel cessate il fuoco che sta cercando di mettere fine alla mattanza bosniaca. Nevica fitto quando tra i due scoppia l'amore, un amore sconsolato. Così come sconsolata è la città che gli fa da sfondo: quella Sarajevo che Max ama sopra ogni altra al mondo. Perché vi si concentrano in massimo grado l'Oriente e l'Occidente, il profumo della vita e il lezzo della morte, un'antica, mirabile tolleranza e un nuovo, bestiale fanatismo. Insomma, l'esistenza tutta intera. Compresa la bellezza senza eguali di Masa, «viso da tartara, occhi come grani di uva nera».
Max ne rimane stregato. Basterà una cena, un timballo di carne, l'aroma del caffè. Basterà quell'«impasto balcanico fatto di sangue e miele» per accendere la fantasia dell'uomo, che con la mente ora comincia a scavalcare secoli e montagne. Il resto lo farà una bottiglia di vodka gelata e Masa che canta per lui con cuore ardente la canzone della cotogna d'Istanbul, in cui si parla di una coppia d'amanti in lotta contro un destino avverso e contro la malattia della donna, la cui cura viene affidata proprio a quel miracoloso frutto, che però arriverà troppo tardi.
Eccolo dunque il suggello tragico dell'amore tra Max e Masa: il contrassegno di un legame indissolubile, il perfetto calco musicale del reale sviluppo degli eventi. Chance di una possibile resurrezione, ma anche ombra da cui è impossibile fuggire.
La ballata, adesso, si fa ancora più drammatica e tumultuosa: dapprima insieme con Masa, e dopo la morte di lei, in totale solitudine, Max comincia la sua peregrinazione tra Vienna, Sarajevo e Istanbul, fiutando tutti i profumi che vengono da Oriente. Si interroga sui precedenti compagni della donna: Vuk e Dusko. Come un cane da caccia segue le piste della storia, degli incroci misteriosi tra le lingue, della religione. Interpella un artista visionario, un vecchio rabbino. E se alla fine del suo lungo viaggio ci si dovesse chiedere quale era lo scopo di tutto ciò, Rumiz, e prima di lui l'ingegner Altenberg, potrebbero a buon diritto rispondere con le parole di Aleksandr Herzen: «E quale è mai lo scopo di una canzone? Suoni, suoni che prorompono dal petto della cantante, suoni che muoiono nell'istante medesimo in cui nascono». Se anziché abbandonarsi a tali suoni si va in cerca di uno scopo ulteriore e occulto, dopo non ci rimarrà altro che il rimpianto di non avere ascoltato la canzone.
Il libro e' scritto in forma di ballata
ecco un estratto dal libro :
Allora Max la ricondusse a letto
mentre il vento soffiava senza posa
e poi cosi’ le disse a bassa voce
“Masa, ti prego, sbrigati a guarire “
Era un ordine, pur se bisbigliato
un ordine assoluto, inderogabile
un dogma, un assioma, un teorema:
tutto, insomma, fuor che una preghiera
Allora lei urlo’ forte di rabbia:
“Chi, sei tu, dimmi, che mi obblighi a vivere?
Dimmi, chi sei, che mi fai tutto questo ?
Tu che mi fai sentire la vita dentro? “
Poi si squarcio’ la camicia da notte
Mostro’ sul seno i segni del chirurgo
ed aggiunse con voce ancor piu’ dura:
“Ma tu da dove vieni che mi prendi
fingendo di ignorare tutto questo
tu che fai finta che sia tutto normale
anche la bestia che mi porto dentro? “
“Forse non hai capito “ lui rispose
con la calma di un vecchio timoniere
“ questo non e’ solo il viaggio tuo
ma il nostro viaggio, lo devi capire
Non lo senti come lo dice il vento?”
:::::: Creato il : 09/10/2010 da Magarotto Roberto :::::: modificato il : 09/10/2010 da Magarotto Roberto ::::::