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con gioia e dolore : esserci ( l'intervento di Rossella al convegno 2010) [15/05/2010]

 

Con gioia e dolore: esserci.
La mia esperienza di volontariato in Ageop.
 
                                                  
 
Buongiorno a tutti ,
 
Su invito del dott. Magarotto, sono qui oggi per raccontarvi della mia esperienza di volontariato dopo il cancro, sul percorso interiore che mi ha condotto a fare questa scelta e sulle riflessioni che ne sono nate.
Non sono abituata a parlare in pubblico, sono molto emozionata ed è per questo motivo che ho scelto di leggere il mio intervento.
 
Nello stesso momento in cui il tumore viene diagnosticato, la nostra vita cambia radicalmente. Le prospettive, le priorità del quotidiano si trasformano.
Per quel che mi riguarda, i sei mesi di chemioterapia a cui mi sono dovuta sottoporre dopo l’intervento chirurgico rappresentano la prima parte di un percorso di rinascita, in cui si è fatta strada poco alla volta la volontà di capire, di scoprire il senso che stava dietro tutto quello che mi stava accadendo. È stato, forse, come se, grazie alla malattia, per la prima volta nella mia vita mi fossi concessa il tempo di riflettere profondamente sul senso della Vita stessa in generale, e della mia, in particolare.
Anch’io, come tanti altri malati prima e dopo di me, ho iniziato a pormi un milione di domande, ma soprattutto: qual è il significato della mia malattia? Cosa succederà di me dopo la morte? Come posso sistemare quelle relazioni che non vanno bene, prima che sia troppo tardi?
E la guardavo, quella nuova vita tra le mie mani, come fosse un bel regalo che dovevo saper confezionare molto bene, e riempire di “cose buone”.
 
Cosa faccio adesso della vita che mi resta, qualunque sia il tempo che mi sarà dato?- mi chiedevo.
Tutto quello che avevo fatto fino a quel momento sembrava appartenermi meno, mi faceva sentire inutile, senza una reale qualità che fosse veramente mia, che mi connotasse.
E si affacciava l’esigenza imperiosa di fare qualcosa per gli altri, per altri che come me stavano affrontando il cancro.
 
Mi accadeva di ripensare a certe giornate vissute in Day Hospital, quando talvolta erano presenti certi pazienti romagnoli, sanguigni e volitivi, che ci facevano ridere a crepapelle: dalla signora che si era data il mascara, dimenticando che le mancavano le ciglia; al tizio che era andato a fare un pranzo esagerato poco prima delle sue 8 ore di chemio, come se questa fosse il giusto digestivo; a quell’altro che commentava con battute salaci le immagini di uno di quegli stupidi programmi su cui era irrimediabilmente sintonizzata la Tv ogni giorno.
Queste persone erano, per talento naturale, dei veri animatori ludici e sapevano effondere una benefica leggerezza in un ambiente carico di pesante tristezza. Pensavo a loro quando mi chiedevo in che modo anch’io potessi dare il mio aiuto.
Poi d’improvviso, un pomeriggio mi è venuto in mente un pensiero: Leggere a Voce Alta Ai Bambini. Quella era una cosa che sapevo fare bene. Come farlo per i bimbi ammalati di cancro, come me? Dopo alcune ricerche su Internet, ho scoperto Ageop, di cui allora non sapevo nulla, quasi avessi vissuto su un altro pianeta. 
 
Ageop nasce nel 1982 per iniziativa di un gruppo di genitori, stimolati dal mitico Prof. Guido Paolucci, Direttore della Clinica Pediatrica dell’Ospedale S. Orsola di Bologna, con l’intento di migliorare la qualità della degenza e dell’assistenza ai piccoli pazienti affetti da Leucemie, Linfomi e Tumori Solidi. Proprio in quei giorni, Ageop stava cercando nuovi volontari e così ho potuto presentare la domanda per candidami come volontario. Nulla accade mai per caso!
 
E così, dopo aver fatto il test di selezione, il corso di formazione, il periodo di tutoraggio, da quasi 2 anni sono un Volontario Ageop a tutti gli effetti e presto il mio servizio ogni Lunedì pomeriggio in una delle Case Accoglienza dell’Associazione.
La lettura ad Alta Voce, che era il mio punto di partenza, è stata proprio l’ultima cosa che solo da poco sto iniziando a fare. L’elasticità è una delle prime doti che bisogna far entrare nel proprio bagaglio di volontario. E questo è già il primo dono che si riceve.
 
 
Tutto il lavoro che ho dovuto fare su me stessa per affrontare la malattia, e che continuo a fare tuttora, è il materiale che metto interiormente a disposizione del mio servizio, è ciò che mi costituisce in quanto volontario. La formazione continua che Ageop fornisce ai suoi volontari aggiunge sempre nuove competenze e maggiore consapevolezza del ruolo.
È ovvio che, aver vissuto personalmente l’esperienza del cancro, mi aiuta nel rapporto con i genitori perché posso comprenderli e ascoltarli con maggior empatia. Ma sempre con molta umiltà e rispetto: affrontare la possibilità di morte del proprio figlio è un’esperienza più lacerante della paura di morte per se stessi.
 
Stare insieme ai bambini, invece, fa emergere la parte migliore di me: quella che ha saputo affidarsi senza domande sul futuro, come loro sanno fare mirabilmente; quella che si mette in gioco, letteralmente, ogni volta senza seguire uno schema preciso, che si lascia andare al flusso.
Osservandoli, ci si accorge che è come se loro conoscessero quei saggi consigli del tipo “vivi nel qui e ora”. L’ “adesso” diventa prioritario, mentre il Futuro può al massimo essere sentito come una continuazione del presente. L’unica logica è:  ora sto bene, quindi gioco, corro, ballo, salto, grido, rido, canto. Adesso sto male, quindi sto a letto, vai via! sono di malumore, non voglio vedere nessuno.
Purtroppo, perdiamo questo talento crescendo! Un adolescente di 12 anni, ha già gli stessi pensieri tetri di un adulto: il mondo magico, che protegge dal dolore, è sfumato nei sogni.
 
La riflessione è questa: dove sta la differenza tra un bambino e un adulto di fronte la malattia? A me sembra che, nella sostanza, potrebbe non esistere. Solo che i bambini trovano la soluzione istintivamente, mentre un adulto si vede costretto a re-imparare tutto daccapo.
Noi volontari abbiamo la grande opportunità di apprendere dai bambini a riferirci solo al presente, senza caricare il nostro ipotetico futuro di aspettative eccessive. Questo, è il secondo dono che si riceve.
 
Per questa ragione, per un volontario che ha vissuto questa esperienza di malattia, i bambini rappresentano una sorta di specchio magico; uno specchio in cui può ritrovare quel bambino ammalato e impaurito, riconoscerlo e accettarlo; ma anche quel bambino istintivamente coraggioso, temerario e saggio che può sforzarsi di recuperare dentro di sé.
Ed è forse questa parte di me che i “miei” bimbi hanno saputo vedere subito e che sono riusciti a far emergere. La stessa parte che mi ha “salvata” dalla depressione dopo l’intervento chirurgico e durante la chemio, che mi ha consentito di affrontare tutto il percorso di cura con una certa naturalezza, quasi come se stessi curando una specie di forte influenza.
 
Potrei portarvi diversi esempi a conforto di queste riflessioni. Ne ho scelti due.
 
Una bimba di 8 anni, con una storia di malattia che sta raggiungendo i 2 anni, e un’energia straripante, anche quando la sua emoglobina è stata spesso vicina allo zero, che mette a dura prova tanti di noi. Quando la incontro di nuovo, dopo alcuni mesi in cui era stata bene, le è stata diagnostica l’ennesima recidiva. Mi chiede se mi troverà in quella casa ogni settimana, adesso che lei è di nuovo a Bologna per le cure “perché, sai –mi dice con un faccino triste- i valori non sono buoni (imparano subito la terminologia medica e sanno usarla); devo fare di nuovo la chemio, che scocciatura! Adesso che mi erano ricresciuti i capelli! –poi rimane in silenzio qualche secondo, riflettendo, e dopo mi abbraccia forte, sorride e mi dice- Però, pensa che bello: adesso potremo vederci sempre e giocare insieme! Dai, andiamo!”
 
Un bambino di 9/10 anni, dotato di un’intelligenza acuta e decisamente fuori dall’ordinario, una specie di secondo test per tutti noi: perché ci sfida per vedere chi di noi sa essere alla sua altezza. Questo bimbo, ha trascorso 2 anni a Bologna per sottoporsi alle chemio, al trapianto di midollo, alle radioterapie e a diverse altre “catture” (come dicono a Bologna) a causa di altri problemi collaterali. Pochi mesi dopo essere stato dimesso, ritornando in ospedale per un controllo, sale le scale di Pediatria dicendo alla mamma “Sono contento di tornare, perché qui ho passato i due anni più belli della mia vita!”.
Penso che tutti possiate facilmente immaginare la faccia trasecolata della mamma. -“Ma cosa dici! Con tutto quello che abbiamo patito!?- “Sì, certo che mi ricordo, ma qui mi sono tanto divertito!-
Questo bambino aveva saputo conservare il ricordo migliore di quei 2 anni, non dimenticando affatto la parte dolorosa ma focalizzandosi, al contrario, sugli incontri e i giochi che aveva potuto fare e su quello che aveva imparato nel campo delle scienze e della biologia (di cui è un vero appassionato).
 
Vi chiedo: quanti adulti saprebbero fare altrettanto? Ecco cosa intendo quando dico che i bimbi sono i miei maestri. E mi ripeto sempre che se dovesse capitare anche a me, se anch’io avessi una recidiva, spero di essere capace di assomigliare a loro, anche solo un pochino …così!
 
Questi due bambini, come altri che ho avuto la fortuna di conoscere, potrebbero non essere qui con noi l’anno prossimo. Ho ascoltato i racconti di altri colleghi e so che questa è un’esperienza dura. Si soffre.
Ma fare il volontario ti costringe a imparare proprio questa lezione: sforzarsi di accettare ciò che non puoi cambiare; non voltare le spalle al dolore e alla sofferenza ma piangere, prenderti una pausa se ne hai bisogno, ma continuare ad esserci per un altro genitore da ascoltare o per un altro bimbo da far giocare in allegria; accogliere tutti nel tuo cuore, ma imparare a mantenere il giusto distacco, per non soccombere; imparare a lasciare andare, a non trattenere, ad accettare la nostra non-onnipotenza. Alcuni ci dicono Ma come fai? Io non potrei mai, sono troppo sensibile! E certo! Noi invece siamo degli stoccafissi!
 
La miglior risposta a queste affermazioni potrebbero essere le parole che Umberto Garimberti ha scritto l’estate scorsa sulle pagine di Repubblica:
“La malattia, quanto più è grave, tanto più tende a nascondersi. E nessuno la va a cercare, perché la sua vista inquieta. […] E così la nostra esistenza si rende immune dalla presenza anche massiccia della sofferenza. […] Ma il rimosso ritorna come atrofizzazione del nostro cuore che, per non percepire, non vedere, non sentire quel che inevitabilmente lo tocca, deve procedere a tali colpi di amputazione della propria sensibilità, da diventare alla fine un povero cuore”.
 
Il Lunedì sera, quando torno a casa dopo un pomeriggio intero in cui ho stirato una montagna di lenzuola (perché un volontario nelle Case si deve occupare anche di questo) oppure ho giocato a fare la Spia, o a combattere gli alieni morendo e risorgendo sul pavimento o sui divani, sono stata inseguitore e inseguita, ho ballato come Michael Jackson oppure ho cucinato patate di plastica come un grande chef o sono stata cotta e condita come un pollo allo spiedo e poi ho concluso il pomeriggio leggendo ad alta voce per 1 ora e più, sono sfinita ma così carica di energia che sembro drogata, come dice sempre mia figlia, che mi chiede Mamma, ma ti sei fatta??
 
Noi volontari diciamo tutti che quello che facciamo è molto meno dei grandi doni che riceviamo da loro, ed è vero. Solo poche settimane fa, ho ritrovato un bimbo con il quale avevo giocato verso la fine del 2009. Quando è arrivato io gli sono andata incontro abbracciandolo; lui ha risposto timidamente al mio saluto, ma proprio quando mi stavo scostando pensando che forse avevo esagerato, mi ha trattenuto, e mi si è stretto contro piano piano, così senza una parola, rimanendo lì abbracciato a me per qualche secondo in più.
Con quel dolce, piccolo gesto ha saputo dirmi che il mio passaggio nella sua vita aveva significato qualcosa, e per me resterà uno dei regali più belli che abbia mai ricevuto.
 
Perché proprio questo è il desiderio e il compito di un volontario ludico: portare una parentesi di luce e di allegria nelle dure giornate di questi bambini.
 
Vorrei condividere con voi un immagine: il disegno di un bimbo che non ho potuto portare qui con me. Un arcobaleno che, come un ponte, unisce il fondo del foglio dipinto a colori scuri e bui alla cima della pagina, in cui dominano i colori più vivaci e brillanti.
Ecco, noi volontari insieme ai bambini siamo lì, nel mezzo dei colori luminosi dell’arcobaleno. E questa “magia curativa” si ripete ogni settimana.
Grazie a voi tutti per avermi ascoltato.

 


::::::    Creato il : 15/05/2010 da Magarotto Roberto    ::::::    modificato il : 15/05/2010 da Magarotto Roberto    ::::::
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