LA RESPONSABILITA’ DELL’OPERATORE SANITARIO ED IL CONSENSO INFORMATO DEL PAZIENTE
PROFILI GIURIDICI ED ASPETTI PRATICI
1 ) Introduzione
Sotto il profilo metodologico non è possibile, nè corretto, affrontare il problema del consenso informato del paziente, senza inquadrarlo nel tema più generale della responsabilità dell'operatore sanitario.
Preferisco parlare di " operatore sanitario " anziché di medico, perché la prestazione terapeutica e diagnostica, salvo casi residuali, si svolge sempre attraverso un lavoro di équipe, che vede coinvolti medici in posizione dirigente o apicale, rispetto ai suoi aiuti ed assistenti, infermieri, tecnici, terapisti ecc. ecc..
Anche se può apparire superfluo o scontato, sembra opportuno fornire innanzitutto una definizione generica di responsabilità: essere responsabile di un'azione e del suo risultato significa rispondere dei suoi effetti eventualmente dannosi od illeciti. Dal punto di vista più strettamente giuridico i due grandi filoni di responsabilità sono quello civile e quella penale.
La responsabilità civile riguarda sostanzialmente l'aspetto economico del danno cagionato (danno emergente e lucro cessante). Più in particolare, nell'ambito dell'attività sanitaria il danno di cui si parla è sempre e soltanto riferito alla persona (paziente) nella forma della lesione personale o della morte.
La responsabilità penale consiste nel compiere un'attività considerata illecita dal nostro ordinamento, che, in quanto tale viene sottoposta a sanzione o pena (multa o ammenda – reclusione o arresto).
Questi due aspetti di responsabilità sono soltanto parzialmente separati, perché uno stesso evento dannoso può essere trattato sia civilmente, che penalmente. I presupposti di fatto che deve accertare il giudice civile e penale spesso sono sostanzialmente identici. Inoltre nell'ambito del processo penale è possibile inserire una domanda risarcitoria civile (costituzione di parte civile).
2 ) L'evoluzione nella coscienza sociale del concetto di responsabilità del sanitario
Negli ultimi 10-15 anni la tematica della responsabilità professionale del medico e, più in generale del sanitario, ha assunto le dimensioni di un problema scottante e di grandissima attualità. Ciò è dovuto ad un profondo mutamento intervenuto nella considerazione dell'arte medica da parte del comune cittadino.
Fino a non molto tempo fa, il paziente si affidava ciecamente alle cure del sanitario, con un atteggiamento di completa soggezione e di totale abbandono, come se il medico fosse il signore assoluto e incontrastato della sua salute.
L'incremento della cultura media dei cittadini, la circolazione più diffusa delle informazioni scientifiche e una crescente attenzione verso i cosiddetti diritti dell'utente, hanno completamente cambiato questo atteggiamento: oggi il paziente, in linea di massima, vuole essere informato, vuole capire il significato degli interventi sanitari che vengono effettuati sul suo corpo, vuole, in altre parole, vigilare sulla gestione della sua salute.
Credo che questo profondo mutamento sia assolutamente apprezzabile, perché risponde ad una considerazione più moderna e, se vogliamo, più democratica della persona umana, sicuramente rispondente ai dettami della nostra Costituzione, che è molto chiara nel non lasciare spazio ad una gestione " subita " dei diritti fondamentali della persona, tra i quali quello della salute occupa un posto di centrale importanza (artt. 2-3-32 della Costituzione).
Tuttavia non si può nascondere che il fenomeno di cui stiamo parlando, come tutte le innovazioni sociali e di costume, ha portato con se degli inconvenienti. Guardando le statistiche dei tribunali, si può constatare come negli ultimi anni la litigiosità ed i contenziosi dovuti a cause civili e penali per responsabilità del sanitario sono aumentati e continuano ad aumentare in modo esponenziale.
Bisogna inoltre osservare che in questi grandi numeri c'è un'altissima percentuale di denunce o di richieste risarcitorie del tutto infondate. Ciò dipende da un modo esasperato e distorto da parte degli utenti di intendere i loro diritti e di considerare le loro aspettative rispetto alla prestazione sanitaria. In sostanza è diffusa l'opinione che se il medico non raggiunge il risultato sperato, ciò vuol dire che ha sbagliato e che in qualche modo deve pagare.
Questo modo di considerare la prestazione sanitaria è completamente errato, sia dal punto di vista etico, che dal punto di vista giuridico, essendola questa un’obbligazione di mezzi e non di risultato. Ciò significa che, nel valutare la condotta del medico, occorre tener presente la bontà delle scelte e delle attività da lui compiute per raggiungere un determinato risultato. Non è possibile invece tener conto soltanto di quest'ultimo, dato l'ampio margine di incertezza dovuta a fattori imponderabili e alla diversità delle risposte individuali, che cambiano da paziente a paziente.
Naturalmente questa esasperata attenzione e vigilanza comportano un ulteriore problema, ossia quello di inibire l'attività dell'operatore sanitario. Il clima che si è creato induce molti medici a scelte terapeutiche prudenziali e riduttive.
Personalmente ho ascoltato le lamentele di diversi medici, che esercitano la professione in un clima di paura, perché si sentono presi di mira da possibili iniziative giudiziarie da parte di pazienti. Ritengono che la giustizia sia sempre pronta a colpirli arbitrariamente. Questi timori rischiano di mortificare il sereno e proficuo esercizio della professione medica e sanitaria. Più volte ho sentito fare la seguente battuta: oltre al medico e all'anestesista, in sala operatoria bisognerebbe sempre portare anche un avvocato.
Naturalmente non ho la pretesa di sciogliere, come per magia, i nodi che formano un problema attuale e spinoso. Ritengo tuttavia che un'esposizione semplice della questione possa aiutare chi opera in campo sanitario, quantomeno a fugare alcuni dubbi.
3 ) I fondamenti normativi della colpa professionale
Dal punto di vista della legge, in particolare del codice penale, il trattamento riservato all'operatore sanitario ha gli stessi identici presupposti e fondamenti destinati a qualsiasi altra persona.
Per il momento stiamo parlando di reati colposi, e nel caso della categoria professionale di cui ci si sta occupando, quelli che qui interessano sono le lesioni colpose e l'omicidio colposo.
Secondo l'articolo 43 C.P. il delitto " è colposo, o contro l'intenzione, quando l'evento, anche se preveduto, non è voluto dall'agente, e si verifica a causa di negligenza, imprudenza o imperizia, ovvero per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline ".
Sicuramente tra i vari profili di colpa designati dalla norma citata, quello meno ricorrente riguarda l'inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline. Qui basti annotare che l'attività sanitaria non solo è regolata da leggi o regolamenti, ma anche dall'ordine di servizio, dato dal primario o dalla capo-sala o anche dai regolamenti dell'ospedale. Rilevano ovviamente anche gli ordini dati dal dirigente (il primario).
Deve però ribadirsi la colpa del medico assume, nella netta maggioranza dei casi, le forme della negligenza, della impudenza e della imperizia.
La condotta del sanitario è negligente quando egli, per disattenzione, per dimenticanza, per trascuratezza, per svogliatezza o superficialità, per mancanza o deficienza della sollecitudine del caso, non rispetti quelle norme comuni di diligenza, che è legittimo attendersi da persona abilitata all'esercizio professionale della medicina e che sono osservate dalla generalità dei sanitari.
Casi classici di condotta negligente sono indicati, ad esempio, nella dimenticata da parte del chirurgo di una garza nell'addome di un paziente o nello scambio di un flacone di sangue.
Non è errato affermare che la condotta negligente è la meno giustificabile, perché attiene ai doveri elementari del sanitario nei confronti del paziente.
Si ha imprudenza quando il medico agisca con avventatezza, eccessiva precipitazione, con ingiustificata fretta, senza adottare le cautele indicate dalla comune esperienza o dettate da precise regole dell'arte medica.
Si può fare l'esempio del sanitario, che si avventuri in un intervento particolarmente impegnativo, pur potendo indirizzare il paziente da uno specialista, o del caso in cui il chirurgo si decida ad operare, pur non essendo in buone condizioni fisiche. Una particolare tipologia di imprudenza, che si ricollega purtroppo ad alcuni fatti di cronaca di questi anni, si ha quando l'operatore sanitario sceglie un percorso terapeutico alternativo privo di fondamento scientifico e seria sperimentazione (o addirittura respinto dalla comunità scientifica). Tale scelta diventa particolarmente censurabile quando il caso potrebbe essere trattato efficacemente con mezzi terapeutici di comprovata efficacia.
Si può notare che la differenza tra imprudenza di negligenza sta nel fatto che quest'ultima si sostanza un'omissione, mentre la prima si estrinseca in un'attività positiva.
L'imperizia richiama il concetto di " incapacità tecnica ", nel senso di difetto di idoneità rispetto la soluzione di un determinato caso. Questa forma di incapacità si manifesta, sia sotto la forma dell'ignoranza (si pensi al caso del medico che non sia in grado di riconoscere la gravità di una patologia o che ignori un conclamato rimedio terapeutico), sia come inabilità, nel senso di incapacità ad applicare i rimedi richiesti nel caso concreto.
Secondo la giurisprudenza questo profilo di colpa si può ravvisare ad esempio nei seguenti casi:
1 ) difetto di normale cognizione ed esperienza tecnica professionale;
2 ) assenza delle cognizioni fondamentali attinenti alla professione e carenza di un minimo di perizia tecnica;
3 ) ignoranza delle regole tecniche che la scienza e la pratica dettano;
4 ) incapacità di eseguire le più banali prestazioni di urgenza che un sanitario deve saper svolgere.
4 ) Breve panoramica sull'evoluzione giurisprudenziale in tema di colpa del sanitario
L'evoluzione della giurisprudenza sulla colpa del sanitario rispecchia, in qualche modo, il mutamento della coscienza sociale riguardante i rapporti tra paziente e sanitario stesso. Precedentemente si è fatto cenno ad un incremento della tutela dei diritti dei malati e ad un atteggiamento più critico e vigile nei confronti dell'operato del sanitario. A monte di questa situazione attuale, occorre ricordarlo, vi è una visione di totale affidamento riguardo alle scelte del medico, come se quest'ultimo fosse una specie di mago la cui arte è impenetrabile per i comuni mortali.
Fino agli anni 70 e per un lungo lasso di tempo la giurisprudenza è partita dal presupposto che di fronte a qualsiasi patologia non è possibile affermare che esistano metodi e protocolli predeterminati di cura. Per lo stesso processo morboso le variabili individuali di carattere imponderabile e le incertezze della scienza medica portavano a ritenere con larghezza di vedute la possibilità dell'errore professionale scusabile.
Secondo questa impostazione, l'ipotesi della responsabilità penale era limitata alla condotta del sanitario che fosse considerata incompatibile " con un minimo di cultura e di esperienza che deve legittimamente prendersi per chi sia abilitato all'esercizio della professione medica " (Cassazione, sezione quarta, 19 marzo 1963). L'errore penalmente rilevante si individuava esclusivamente nei casi di "colpa grave ", consistente in manifestazioni evidenti e grossolane di incapacità o nella mancanza di prudenza e diligenza che non devono mai difettare in chi esercita professione sanitaria (Cassazione sezione quarta, 26 gennaio 1968).
Questo indirizzo giurisprudenziale trovava fondamento giuridico nella previsione dell'art. 2236 del codice civile, il quale recita: " se la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciali difficoltà, il prestatore d'opera non risponde dei danni se non in caso di dolo e colpa grave ".
Non si può fare a meno di notare che questo trattamento particolare riservato agli esercenti la professione sanitaria, e nello specifico ai medici, costituisse una deroga ingiustificata che si traduceva in un privilegio privo di si fondamenti giuridici.
Queste problematiche hanno trovato una soluzione abbastanza convincente nella sentenza emessa dalla Corte Costituzionale il 28 novembre 1973 n. 166.
Gli illustri giudici affermarono che una valutazione della colpa ispirata a criteri di minore severità rispetto a quelli ordinari, così come consentita dall'articolo 2236 del codice civile, non trova certamente giustificazione nelle condizioni personali o sociali della classe medica, bensì nei caratteri oggettivi dell'attività che al professionista si richiede. Pertanto il differente e più favorevole trattamento giuridico risulta circoscritto alla sola ipotesi in cui la prestazione comporti "problemi tecnici di speciale difficoltà ", ed alla sola colpa derivante da imperizia. A tale proposito la Corte ha affermato tra l'altro: " l'indulgenza del magistrato è direttamente proporzionata alle difficoltà dei compiti ".
In sostanza la Corte Costituzionale afferma con la citata sentenza che la responsabilità del sanitario, limitata alla sola colpa grave, deve rispondere a due requisiti fondamentali: a ) la sua prestazione deve incontrare speciali difficoltà tecniche; b ) la limitazione della responsabilità vale solo per il profilo dell'imperizia.
L'evidente corollario di questa impostazione è che i residuali profili di colpa, ossia la negligenza, l'impudenza, il mancato rispetto di leggi, regolamenti, ordini e discipline debbano essere trattati dal giudice secondo i criteri ordinari.
I parametri valutativi indicati della Corte Costituzionale trovano riscontro in numerose sentenze della Corte di Cassazione, anche piuttosto recenti. Se ne riporta una per tutte: " in materia di colpa professionale dei medici, quando l'evento venga addebitato a titolo di imperizia, la valutazione del giudice deve essere particolarmente larga nel ristretto ambito della colpa grave; mentre se l'addebito si sostanzia in una condotta impudente o negligente, la valutazione del giudice deve essere effettuata nell'ambito della colpa lieve per la omissione della più comune diligenza rapportata al grado medio di cultura e capacità professionale, secondo i criteri normali e di comune applicazione, valevoli per qualsiasi condotta colposa " (Cassazione, sezione seconda, 23-8-1994 ).
Va tuttavia sottolineato che ancora oggi sulla tematica della limitazione di responsabilità sanitaria, in caso di imperizia, alla sola colpa grave, il dibattito è molto aperto sia in dottrina che in giurisprudenza. Esiste un'evoluzione interpretativa molto più rigorosa, secondo la quale la valutazione del comportamento medico deve basarsi sui normali parametri del diritto penale, anche nel tentativo di allontanare ogni sospetto di irragionevole o arbitrario privilegio riservato alla classe medica
Non pretendo certamente di avere in tasca la soluzione di un dibattito accesissimo tra giuristi molto illustri. Mi limito comunque ad osservare che nella pratica giudiziaria in tema di responsabilità del professionista sanitario, il giudice non può fare a meno di tener conto della particolare difficoltà del caso sfociato in un evento lesivo o letale a carico del paziente. Senza voler banalizzare, risulta evidente che tanto più una patologia è scarsamente conosciuta in letteratura, tanto più i suoi effetti sono imprevedibili, quanto più il giudice dovrà apprezzare con prudenza e ponderazione la responsabilità del medico. Semplificando, e in questo non mi sento smentito da una lunga pratica giudiziaria, appartiene al bagaglio del buon senso comune il ritenere che quando un intervento umano incontra eccezionali difficoltà tecnico - scientifiche, discostandosi dalla routine, il giudizio su quel tipo di attività deve essere improntato a particolarissima prudenza ed attenzione.
Va inoltre ricordato che il giudice, per il suo bagaglio culturale non è assolutamente in grado di addentrarsi in questioni riguardanti le scelte terapeutiche o diagnostiche. Ciò significa che, nella pratica giudiziaria e nel 100% dei casi, il giudice deve affidarsi ad un perito o ad un collegio di periti, a seconda della difficoltà del caso. Saranno quindi i periti a rendere intelligibile agli occhi del magistrato le cause dell'esito lesivo o mortale a carico del paziente, il tipo di patologia che il sanitario aveva di fronte, la correttezza delle scelte operate, ed il nesso di causalità tra azioni od omissioni eventualmente censurabili e l'evento lesivo.
Ciò significa che nell'ambito di un processo per responsabilità professionale del sanitario, il ruolo dei periti e dei consulenti tecnici di parte assume una rilevanza fondamentale per inquadrare praticamente il caso. Il loro ausilio serve anche per consentire al giudice di valutare il grado quelle eventuali difficoltà tecniche di particolare rilievo, che, come detto, possono giustificare un apprezzamento della colpa in termini meno severi.
Ovviamente la precisazione che precede non deve indurre a ritenere che in realtà il processo al sanitario sia condotto dal perito. Al giudice spetta il compito di valutare criticamente, sotto il profilo logico, la relazione peritale, tenendo conto delle osservazioni dei consulenti di parte. Inoltre il magistrato deve tradurre in termini giuridici le osservazioni emergenti dalla perizia.
5 ) Il nesso di causalità
Non basta stabilire che la condotta del medico sia stata colposa per affermarne la penale responsabilità.; occorre infatti dimostrare che tale condotta sia in relazione causale con l'evento infausto (morte o lesioni).
Il nostro diritto penale ha accolto la linea più rigorosa in tema di nesso di causalità, ossia quella della cosiddetta equivalenza delle cause. Tale principio si fonda su due disposizioni basilari:
a ) per rispondere di un reato è sufficiente che il soggetto abbia posto in essere una condizione dell'evento, ossia un qualsiasi antecedente, senza il quale l'evento stesso non si sarebbe verificato (art. 40, primo comma, C.P.);
b) non vale ad escludere il rapporto di causalità il fatto che l'evento sia stato determinato anche per il concorso di altre cause (dette concause), pur se estranee alla condotta del soggetto. Ciò vale per tutti i tipi di concause, ossia le preesistenti, le successive o le contemporanee. È inoltre indifferente che tali concause siano determinate da altre azioni umane, lecite o di illecite, o da fattori naturali (art. 41, primo e terzo comma C.P.).
Il rigore del principio dell'equivalenza delle cause è temperato unicamente dalla previsione contenuta nel secondo comma dell'articolo 41 C.P., secondo cui il rapporto di causalità è escluso nei casi in cui si sovrapponga alla condotta del soggetto una causa a carattere eccezionale, ossia imprevedibile ed incontrollabile dall'uomo e che da sola sia stata in grado di cagionare l'evento (ci si sta ovviamente riferendo ad una concausa sopravvenuta).
Si pensi al caso di un paziente che ha riportato ferite e al quale i medici hanno omesso di praticare l'antitetanica. Si tratta di una condotta gravemente omissiva e negligente , che tuttavia non si pone in relazione causale con la morte del paziente determinatasi per l'incendio dell'ospedale.
È molto importante sottolineare come, in tema di responsabilità del sanitario, l'accertamento sul nesso causale cambia a seconda che la condotta si sia realizzata attraverso un'azione od un'omissione.
In caso di condotta colposa attiva (come spesso accade in tema di imprudenza o imperizia), occorre la prova che l'evento lesivo o mortale sia con certezza la conseguenza della prestazione non corretta ed erronea del medico. Si intende dire che se il sanitario avesse rispettato i canoni di comportamento previsti dalla legge e dall'esperienza, l'evento sicuramente non si sarebbe verificato.
Quando invece la colpa consista in un rimprovero di omissione rispetto ad un comportamento dovuto, il criterio della certezza degli affetti della condotta, secondo copiosa giurisprudenza, è sostituito con quello della probabilità. In questi casi si ritiene sussistente il nesso di causalità anche quando l'opera del medico, se fosse stata tempestiva e corretta, avrebbe avuto, non già la certezza, quanto elevate probabilità di successo.
Su questo tema parte la giurisprudenza è tuttavia abbastanza oscillante, ed ondeggia tra pronunce severissime, altre più equitative, ed altre ancora che si affidano a criteri probabilistici e matematici (alcune pronunce affermano che là ove è in gioco la vita umana, anche solo poche possibilità di esito favorevole sono sufficienti per far ritenere la sussistenza del rapporto di causalità; in altre sentenze si legge che sussiste il nesso di causalità tra la condotta e l'evento anche se l'intervento del sanitario offre non già la certezza, bensì serie ed apprezzabili possibilità di successo, di tal che la vita del paziente possa essere salvata con buona probabilità; in altre decisionisi ancora la quantificazione della sopravvivenza viene tradotta in termini di percentuali aritmetiche quali, almeno il 30%, non inferiore al 50% ecc. ecc .
La più recente giurisprudenza, pur accettando i criteri probabilistici in tema di condotta omissiva, esige che in presenza di determinate condizioni l'attività che ci si doveva aspettare dal sanitario deve essere individuata con certezza. Nel senso che occorre una prova certa secondo cui quell'attività omessa avrebbe dovuto certamente essere posta in essere. Poi è necessario fornire la prova che se quella condotta o attività fosse stata realizzata, avrebbe avuto serie probabilità di successo.
In una recentissima sentenza della Cassazione, così detta sentenza BALTROCCHI del 28-9-2000, si stabilisce che il giudice, anche nei reati omissivi debba accertare che, con probabilità vicina alla certezza, l'omissione è stata causa necessaria dell'evento.
6) Il Consenso Informato
Di per sé l'attività medico chirurgica si presenta, nella maggioranza dei casi, come illecita. Basti pensare ad interventi invalidanti affidati alla chirurgia, a terapie particolarmente debilitanti e faticose, a strumenti diagnostici invasivi, se non addirittura molto pericolosi.
Senza il consenso del paziente interessato, l'attività sanitaria, si risolverebbe, nella gran parte dei casi, in una serie di reati, piuttosto gravi e, si badi bene, di natura dolosa. In buona sostanza il consenso del paziente rende lecito il volontario intervento del medico, che altrimenti dovrebbe rispondere di lesioni volontarie o di omicidio preterintezionale. Ciò anche nel caso in cui l'intervento sanitario abbia sortito un buon risultato.
7 ) Fondamento Giuridico del Consenso Informato.
La necessità di acquisire il consenso informato del paziente trova fondamento in alcuni principi cardine del nostro ordinamento giuridico: a ) articolo 13 della Costituzione, che tutela l'inviolabilità della libertà personale. Si tratta di porre il paziente nella possibilità di scegliere liberamente il trattamento sanitario a cui si sottopone; b ) articolo 32 della Costituzione, che tutela il diritto alla salute e quello a non subire trattamenti sanitari, ad eccezione dei casi tassativamente previsti dalla legge; c ) articolo 5 cod. civ. ove si stabilisce il divieto di atti di disposizione del proprio corpo, quando cagionino una permanente diminuzione della integrità fisica.
Deve inoltre essere evidenziato il codice di deontologia medica del 1995, che agli articoli dal 30 a 35 è molto minuzioso nel dare significato e contenuto concreto al consenso informato del paziente. Se ne raccomanda pertanto la lettura di quelle norme, che contribuiscono a sviscerare la questione con apprezzabile approfondimento.
8) I Requisiti del Consenso Informato.
A ) Manifestazione del Consenso.
Secondo una regola generale non esiste una forma predeterminata per esprimere il consenso. Ciò significa che la volontà del paziente deve comunque risultare in modo non equivoco, così che l'operatore sanitario la possa chiaramente percepire. Da questa regola generale discendono due collari: 1 ) nelle attività scarsamente rischiose ( viene in mente il prelievo del sangue) può essere sufficiente anche un consenso tacito; 2 ) quando invece l'intervento sanitario si presenta più invasivo o rischioso e comunque quando coinvolge l'integrità fisica od espone il paziente al pericolo di pesanti effetti collaterali o ivalidanti, è assolutamente preferibile acquisire il consenso nella forma scritta.
A questo punto può essere illuminante trascrivere per intero quanto dispone l'articolo 32 del codice deontologico dei medici in tema di acquisizione del consenso: " il medico non deve intraprendere attività diagnostica e/o terapeutica senza l'acquisizione del consenso informato del paziente.
Il consenso, espresso in forma scritta nei casi previsti dalla legge e nei casi in cui per la particolarità delle prestazioni diagnostiche e/o terapeutiche o per le possibili conseguenze delle stesse sulla integrità fisica, si renda opportuna una manifestazione di inequivoca della volontà della persona, è integrativo e non sostitutivo del processo informativo di quell'articolo 30. Il procedimento diagnostico e/o il trattamento terapeutico che possono comportare grave rischio per l'incolumità della persona, devono essere intrapresi solo in caso di estrema necessità e previa informazione sulle possibili conseguenze, cui deve fare seguito una opportuna documentazione del consenso. In ogni caso, in presenza di documentato rifiuto della persona capace di intendere e volere, il medico deve desistere dai conseguenti atti diagnostici e-o curativi, non essendo consentito alcun trattamento medico contro la volontà della persona, ove non ricorrono le condizioni di cui all'articolo 34.
B ) Personalità del Consenso.
Un valido consenso può provenire soltanto dalla persona che abbia la titolarità e la disponibilità della propria integrità fisica, quindi non può essere prestato che dal paziente.
L'unica eccezione a questa regola generale si può ipotizzare quando il paziente sia privo di coscienza e vi sia una condizione di emergenza. In questo caso si ritiene che la sua volontà possa essere sostituita da quella di altri, ad esempio i familiari. Pertanto al di fuori di queste ipotesi, bisogna ritenere che nessun valore giuridico può essere accordato al consenso espresso dai parenti in luogo del paziente vigile e capace.
C ) La Capacità del Paziente che esprime il Consenso.
Il consenso deve provenire da un paziente che sia capace sia giuridicamente, che in linea di fatto. Deve, in altre parole, essere prestato del chi è pienamente titolare del diritto tutelato (persona che abbia compiuto i 18 anni) e che, a giudizio del sanitario, sia capace di intendere e di volere.
Per quanto riguarda i minorenni la regola generale è che essi sono rappresentati dai genitori o comunque dai legali rappresentanti (tutori o altri familiari).
Può porsi tuttavia un problema quando la volontà del minore e la volontà del rappresentante non coincidano. In tal caso bisogna distinguere:
-se il minore o per la giovanissima età, o per le condizioni psichiche e fisiche in cui si trova appare al curante incapace di intendere e volere, prevarrà comunque la volontà del rappresentanti;
-se invece il minore, o perché non gravemente inferno, e quindi di fatto capace di intendere e di volere, o perché comunque sufficientemente maturo, in quanto vicino la maggiore età, si dovrà dare la prevalenza alla volontà del minore stesso.
Si tratta evidentemente di situazioni limite nelle quali il buon senso e l'attenzione del medico assumono un ruolo determinante nella valutazione della miglior condotta da tenere.
Ovviamente nei casi di urgenza e quindi d’interventi non procrastinabili, sarà comunque il medico a valutare discrezionalmente l'opportunità o meno di un intervento.
9) I contenuti dell'Informazione
C) Libertà del consenso.
Naturalmente la volontà del paziente che esprime il consenso deve formarsi liberamente. Ciò significa che la sua scelta deve essere non costretta, ossia non frutto di false prospettive terapeutiche o promesse non realizzabili, ed immune dai cosiddetti vizi di volontà, che secondo il codice civile sono l'errore, la violenza ed il dolo. Tralasciando l'ipotesi del dolo, l'errore rileva nel caso in cui, ad esempio, dovesse riguardare la tipologia del trattamento o l'entità dei rischi. Pare infine residuale l’ipotesi della violenza, essendo difficilmente immaginabile che un operatore sanitario costringa il paziente a subire un trattamento, sotto la pressione di violenze psichiche o fisiche.
E) Revocabilità del consenso.
Il paziente può revocare il consenso in qualsiasi momento. Sarà compito del medico verificare, anche in assenza di esplicitata dichiarazione di revoca, che il consenso rimanga durando tutte le fasi del trattamento. È ovvio tuttavia che l'attività medica non completata, sia essa farmaceutica, chirurgica, o diagnostica non può essere interrotta nella gran parte dei casi. Pertanto in quelle situazioni la revoca del consenso non ha alcun valore.
F) Destinatario del consenso.
Di regola il consenso deve essere comunicato e percepito dal medico che si accinge ad applicare il trattamento. Non sarebbe valido infatti il consenso comunicato ad un suo collega, estraneo al trattamento stesso.
Tuttavia questa affermazione di carattere generale trova forti limitazioni nel lavoro ospedaliero di équipe.
In quel caso vale il principio dell'affidamento, nel senso che, ciascuno risponde della propria opera secondo i compiti affidatigli o dal primario, o da direttive di routine. Pare pertanto che, in quell'ambito, sia del tutto valido il consenso formulato a uno dei componenti dell'équipe che si occupa del paziente.
G) Il cosiddetto consenso presunto.
In alcuni casi l'operatore sanitario può, anzi deve, prescindere dall'acquisizione del consenso da parte del paziente.
Si tratta di situazioni nelle quali si presenta uno stato di necessità o di emergenza. Si pensi il caso di una persona che, priva di parenti facilmente raggiungibili, si trovi in una condizione di totale incoscienza, dovuta a una grave patologia, e che richieda immediati interventi.
La liceità dell'agire del medico in questi casi, viene giustificata attraverso due teorie.
La prima, quella del consenso presunto, parte del presupposto che se paziente fosse stato cosciente e capace di intendere e volere, di fronte alla situazione che gli sarebbe stata prospettata avrebbe sicuramente dato il proprio consenso.
La seconda trova fondamento l'art. 54 c.p. , che tratta dello stato di necessità. Secondo la norma l'intervento è lecito, in quanto sussiste una situazione inderogabile di salvare il paziente da un pericolo attuale di un danno grave alla sua salute. Tale pericolo deve essere evitabile solo ricorrendo a quelle determinate cure mediche, che devono inolre essere proporzionate alla situazione. .
Non molto tempo fa la Cassazione, con la sentenza n. 5639 del 1992 sul punto affermato che il chirurgo che, in assenza di una situazione di necessità e urgenza, sottoponga il paziente a intervento assai più impegnativo, rischioso rispetto a quello meno complesso per il quale era stato prestato il consenso, risponde del reato di lesioni personali e, se da ciò consegue la morte del paziente, di omicidio preterintezionale.
10) Obbligo d'Informazione
È evidente che affinché il consenso possa rivestire i caratteri sopra enunciati e sia comunque efficace, debba essere preceduto da una corretta informazione fornita dal sanitario.
In linea generale per corretta informazione deve intendersi una conoscenza basilare da parte del paziente per quanto concerne l'entità del male di cui è affetto, i rimedi necessari, i rischi cui va incontro, sia per il male in sé, sia per le terapie proposte.
Su questi punti appare opportuno segnalare un'importante sentenza della Corte di Cassazione, secondo cui: "nel rapporto tra chirurgo e paziente, il professionista ha sempre il dovere di informare il paziente sulla natura e sulla portata dell'intervento, sulle possibilità di esito positivo..... ciò perché tale informazione è condizione indispensabile per la validità del consenso al trattamento terapeutico e chirurgico, senza il quale l'intervento sarebbe impedito dall'articolo 32 della Costituzione....., a norma del quale nessuno può essere obbligato di un trattamento sanitario, se non per legge".
Affermazioni analoghe sono leggibili nell'articolo 29 del codice deontologico del 1995, il quale prevede che " il medico ha il dovere di dare al paziente, tenendo conto del suo livello di emotività e delle sue capacità di discernimento, la più serena ed idonea informazione sulla diagnosi, sulla prognosi, sulle prospettive terapeutiche e sulle verosimili conseguenze della terapia e della mancata terapia, nella consapevolezza dei limiti delle conoscenze mediche ".
Qualche considerazione vale la pena di formulare con maggiore specificità su quale debba essere il contenuto di queste informazione:
-oggetto del consenso deve essere il trattamento in quanto tale e non i risultati del trattamento. Ciò perché, come si diceva all'inizio di questo breve lavoro, l'obbligazione del sanitario è sempre e soltanto un'obbligazione di mezzi e non risultato;
-l'informazione, come ribadito dall'articolo 29 citato, deve essere chiara, anche rispetto al livello culturale del paziente, dal quale non si può pretendere la laurea in medicina per comprendere l'informazione stessa;
-il problema della corretta informazione si poneva in termini particolarmente drammatici fino a qualche anno fa, quando la patologia di cui il paziente era affetto avrebbe comunque comportato una prognosi infausta o conseguenze molto gravi od invalidanti. La tendenza era quella di tenere conto ai massimi livelli della " tenuta psicologica del paziente ", nel dubbio che una notizia cosidetta " ferale " potesse compromettere la serenità il paziente stesso, andando addirittura a discapito dell'efficacia terapeutica. In quei casi le linee di condotta adottate dai medici erano quelle di " edulcorare " la pillola facendo apparire una situazione meno drammatica di quella che si presenta nella realtà. Oggi questa tendenza si è sensibilmente attenuata, in virtù di diverse direttive molto esplicite sul punto:
-l'articolo 30 del codice di deontologia professionale dei medici del 1995, prevede che " le informazioni riguardanti prognosi gravi o infauste o tali da poter procurare preoccupazione e sofferenza alla persona, devono essere fornite con prudenza, usando terminologie non traumatizzanti, senza escludere elementi di speranza. La documentata volontà della persona assistita di non essere informata o di delegare ad altro soggetto l'informazione deve essere rispettata;
-in una direttiva emanata dal Comitato Nazionale di Bioetica si afferma che nel caso di prognosi infausta, il medico dovrà utilizzare, nei riguardi del paziente, una terminologia precisa, ma al tempo stesso, non traumatizzate. In ogni caso la richiesta dei familiari di fornire al paziente informazioni non veritiere, non è vincolante. Il medico ha il dovere di dare al malato le informazioni necessarie per affrontare responsabilmente la realtà, attenendosi però a criteri di prudenza, soprattutto nella terminologia.
L'unico limite ai principi sopra enunciati è rappresentato dall’esplicita e chiara volontà del paziente di non voler essere informato, volontà che deve in ogni caso essere rispettata.
Volendo ora schematizzare quale debba essere il contenuto dell'informazione si può ipotizzare:
1 ) diagnosi; 2 ) prognosi in caso di non intervento o mancata terapia; 3) prognosi in caso di intervento o di terapia; 4) possibili interventi o terapie alternative proponibili; 5 ) modalità di esecuzione; 6 ) rischi che l'intervento o le terapie comportano; 7 ) eventuali complicanze o effetti collaterali; 8) eventuali necessità di diversificare l'intervento; 9 ) decorso post - operatorio; 10 ) qualità della vita attesa riguardo al lavoro, vita di relazione, hobbies, spots); 11 ) casistica quell'intervento.
Naturalmente il riferimento ai rischi dell'intervento dev'essere calibrato a quelli che, in base alla letteratura medica, ed ai dati statistici, risultano essere quelli più frequenti e probabili. Questo principio è stato affermato con sentenza n. 364 del '97 emessa dalla Cassazione. Secondo questa massima " l'obbligo di informazione del medico si estende ai rischi prevedibili e non anche agli esiti anormali, ai limiti del fortuito, che non assumono rilielievo, secondo
:::::: Creato il : 10/05/2009 da Magarotto Roberto :::::: modificato il : 10/05/2009 da Magarotto Roberto ::::::