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terapie molecolari mirate nei tumori solidi [15/03/2009]

Dal sito del Ministero della salute  riproduciamo un testo sulle nuove terapie  molecolari dei tumori solidi( autori il prof.Cognetti e la dr.ssa Felici dell'Istituto Regina Elena di Roma)

-GLIVEC
-IRESSA

-TARCEVA

-HERCEPTIN
-ERBITUX
-AVASTIN

-NEXAVAR
-SUTENT

 sono a disposizione per chiarimenti ; scrivetemi  :roberto.magarotto@sacrocuore.it
 
 
Negli ultimi decenni importanti ed applicabili acquisizioni di oncologia molecolare, in

particolare la conoscenza dell’intera sequenza del genoma umano, hanno consentito di ridurre il divario tra ricerca di base e pratica
clinica. Lo studio di alcuni aspetti della biologia molecolare, come fattori di crescita, molecole coinvolte nella traduzione del segnale, angiogenesi, apoptosi, invasività e
ciclo cellulare ha consentito di identificare
nuovi bersagli farmacologici in grado di
interferire con eventi chiave della
trasformazione e proliferazione della cellula
neoplastica. Le cellule normali sono
influenzate da una varietà di fattori ambientali
e dell’ospite tali da produrre mutazioni “pro-
oncogeniche”; ne deriva che da una singola o
da una serie di queste mutazioni può risultarne
una trasformazione cellulare. Come le cellule
normali, la maggior parte delle cellule
neoplastiche utilizzano multiple vie di segnale
intracellulare al fine di assicurare il mantenimento delle proprie funzioni vitali;

  i recettori espressi sulla superficie cellulare possono
costituire il bersaglio di una nuova forma di
terapia mirata.  Le nuove linee di ricerca
farmacologica si sono quindi rivolte alla
identificazione di agenti (terapia target) in
grado di interferire in maniera selettiva contro
bersagli molecolari specifici al fine di
aumentare la selettività del bersaglio e di
ridurne  gli effetti collaterali sistemici.  
Il prototipo più classico della molecola target è
l’imatinib mesilato(GLIVEC), molecola identificata in
studi di screening disegnati allo scopo di
identificare inibitori della tirosin chinasi Bcr-
Abl, lesione molecolare responsabile dello
sviluppo della leucemia mieloide cronica.
Originariamente sintetizzato come inibitore
del recettore per il fattore di crescita delle
piastrine (PDGFR), l’imatinib è anche un
potente inibitore della tirosin chinasi c-kit che
agisce legandosi al sito dell’ATP impedendo
all’enzima di fosforilare i substrati.
Attualmente l’imatinib è approvato per il
trattamento della leucemia mieloide cronica
resistente alla terapia con interferone e per le
forme di tumore dello stroma gastrointestinale
(GIST) che esprimono c-kit [1]. In queste
ultime rare forme di tumore del tratto
gastroenterico l’imatinib ha consentito di
ottenere un beneficio clinico in oltre l’80% dei
pazienti con una risposta obiettiva in oltre il
50% dei casi, modificando radicalmente
l’approccio a questa neoplasia considerata
incurabile con i tradizionali farmaci
chemioterapici. L’Imatinib viene
somministrato per os ad una dose di 400
mg/die e può causare nausea e vomito, edema
e ritenzione fluida, mialgie, diarrea e
mielosopressione. Il sorprendente successo
ottenuto con imatinib ha lasciato ipotizzare
che simili risultati potessero essere raggiunti
nel trattamento di altri tumori solidi agendo a
livello molecolare su proteine aberranti
espresse dalla neoplasia. In realtà la
complessità delle alterazioni molecolari
inerente i tumori solidi ha, in alcuni casi,
deluso le aspettative, ma ha sicuramente
offerto una nuova via di attacco e sviluppo
farmacologico da associare alla chemioterapia
o da utilizzare come trattamento alternativo ai
farmaci citotossici.
Nell’ambito del trattamento del tumore della
mammella, l’ormonoterapia può essere
definita la prima terapia target utilizzata nel
trattamento dei tumori endocrino-correlati.
L’utilizzo di farmaci che inibiscono la
stimolazione ormonale nasce dal presupposto
che gli ormoni possano causare un eccessiva
proliferazione nelle cellule ormonoresponsive,
fino a determinare una vera a propria
trasformazione neoplastica ed ha dimostrato
nel tempo di essere una delle armi più potenti
a disposizione dell’oncologo medico. Negli
ultimi cinque anni una nuova molecola è stata
ampiamente studiata e testata in pazienti
affette da tumore della mammella: il
trastuzumab(HERCEPTIN) anticorpo monoclonale
 ricombinante umanizzato con elevata affinità
di legame per la proteina HER2/neu, membro
della famiglia ErbB, espresso in circa il 20-
30% delle pazienti con carcinoma mammario
ed identificato come indicatore prognostico
negativo. Un’accurata determinazione di
HER2 è fondamentale per il trattamento
ottimale dalla paziente e l’IHC
(immunoistochimica) e la FISH (ibridazione a
fluorescenza in situ) sono gli attuali metodi
standard per la determinazione
dell’espressione di HER2. Il tumore
mammario HER2-positivo viene definito come
IHC 3+ o FISH/CISH (ibridazione
cromogenica in situ) positivo; i casi IHC 2+
devono essere sempre rivalutati con FISH o
CISH [2]. Le linee guida per la valutazione
delle pazienti con carcinoma mammario
raccomandano la determinazione precoce dello
stato HER2 del tumore. Due studi
randomizzati hanno dimostrato che l’aggiunta
del trastuzumab alla chemioterapia con taxani
migliora significativamente la sopravvivenza
di donne affette da carcinoma della mammella
in fase metastatica. Un primo trial
randomizzato su 469 pazienti ha dimostrato
che la combinazione di trastuzumab  e taxolo
produce il 49% di risposte obiettive rispetto al
29% ottenuto con la sola chemioterapia. I
risultati di questo primo studio hanno
consentito la registrazione del farmaco in
monoterapia ed in associazione al taxolo [3].  
Nel 2004 l’indicazione è stata ampliata anche
al trastuzumab in associazione con il taxotere
in seguito alla pubblicazione dello studio
M77001 che confermava un vantaggio in
termini di risposte obiettive, tempo alla
progressione e sopravvivenza globale [4].
Attualmente il trastuzumab viene studiato in
combinazione a numerosi agenti
chemioterapici come la vinorelbina, la
gemcitabina, i derivati del platino, la
capecitabina e formulazioni meno
cardiotossiche di antracicline. Infatti, seppure
l’anticorpo ha un ottimo profilo di tossicità,
possiede un effetto cardiotossico, la cui
eziopatogenesi è in fase di studio e che ne
preclude l’utilizzo in combinazione con le
antracicline. Ad oggi oltre 13 mila pazienti
sono stati arruolati in studi clinici con
trastuzumab in fase adiuvante e le analisi ad
interim degli studi in corso hanno dimostrato
un netto vantaggio sulla sopravvivenza libera
da ricadute delle pazienti trattate con
l’anticorpo rispetto al gruppo di controllo.
Questi dati così incoraggianti, seppur
preliminari, consentono oggi di trattare le
pazienti che overesprimono HER2 anche in
assenza di malattia macroscopica.  
Un altro recettore trasmembrana tirosin-
chinasico e membro della famiglia ErbB è
l’EGFR, la cui espressione è stata ampiamente
studiata in tutti i tumori ed ha consentito lo
sviluppo di diverse molecole target soprattutto
nel tumore del polmone e nel tumore del
colon.  L’EGFR è una glicoproteina di
membrana che lega specifici ligandi, come
l’EGF (epidermal growth factor) ed il TGFα
(transformin growth factor alpha) nel suo
dominio extracellulare.  Questa interazione
 
conduce alla omodimerizzazione con altri
EGFR o alla eterodimerizzazione con altri
recettori della famiglia degli EGFR con
conseguente fosforilazione del dominio
intracellulare tirosin-chinasico, che è il
promotore di una cascata di segnali
intracellulari che regolano la proliferazione, la
migrazione, l’adesione, la differenziazione e la
sopravvivenza della cellula. Nell’ambito degli
anti-EGFR sono stati sviluppati anticorpi
monoclonali diretti contro il dominio
extracellulare del recettore (cetuximab,
panitumumab) e piccole molecole inibitori del
dominio intracellulare tirosin-chinasico (TKI:
gefitinib, erlotinib) [5,6]. Il Gefitinib(IRESSA) è stata la
prima molecola studiata nel tumore del
polmone non a piccole cellule (NSCLC) ed i
primi due studi condotti (IDEAL-1 e IDEAL-
2) in pazienti con tumore metastatico
pretrattato hanno dimostrato una percentuale
di risposte fino al 20%, ma soprattutto un netto
miglioramento dei sintomi e della qualità di
vita di coloro che hanno risposto; in
particolare sono stati identificati sottogruppi di
pazienti particolarmente sensibili al
trattamento con l’anti-tirosin-chinasico:
asiatici, non fumatori, donne e pazienti con
istotipo di adenocarcinoma. Un successivo
studio di confronto verso placebo (Iressa
Survival Evaluation in Lung Cancer) ha però
fallito nel dimostrare un vantaggio della
molecola in termini di sopravvivenza totale e
nei pazienti con adenocarcinoma. Due studi
internazionali hanno, inoltre, valutato
l’efficacia della combinazione del gefitinib
con la chemioterapia standard utilizzata in
prima linea in Europa e negli Stati Uniti,
cisplatino/gemcitabina (INTACT-1) e
carboplatino/paclitaxel (INTACT-2)
rispettivamente, verso la chemioterapia da sola
[7,8]. Nessun vantaggio sulla sopravvivenza è
stato dimostrato con l’aggiunta del TKI, ma
un’analisi della sottopopolazione con
adenocarcinoma arruolata nell’INTACT-2 ha
presentato un vantaggio significativo della
sopravvivenza.  
L’erlotinib(TARCEVA) è un altro inibitore tirosin-
chinasico che presenta delle piccole differenze
farmacologiche rispetto al gefitinib. Un primo
studio di confronto tra erlotinib e placebo in
pazienti pretrattati per NSCLC ha dimostrato
una percentuale di risposte pari a 8,9% ed un
miglioramento della sopravvivenza rispetto al
placebo [9]. Anche l’erlotinib è stato associato
alla chemioterapia come trattamento di prima
linea in pazienti affetti da NSCLC. Lo studio
TALENT (cisplatino-gemcitabina + erlotinib
vs la stessa combinazione chemioterapica +
placebo) e lo studio TRIBUTE (carboplatino-
paclitaxel + erlotinib vs la stessa
combinazione chemioterapica + placebo) hanno
fallito nel dimostrare una maggiore efficacia
con l’aggiunta del TKI [10,11].  
Sono attualmente in corso studi di trattamento
sequenziale del TKI al termine della
chemioterapia.
In nessuno degli studi citati i pazienti sono
stati selezionati sulla base dell’espressione
dell’EGFR o di qualunque altro marker di
efficacia e questa mancanza può aver
 
giustificato almeno in parte i risultati degli
studi fin qui condotti.  
Recentemente mutazioni dell’EGFR in
corrispondenza del sito di legame dell’ATP
sono state correlate alla risposta al trattamento
sia con gefitinib che con erlotinib [12]. In
particolare la percentuale di risposte sembra
molto più alta in pazienti portatori della
mutazione che si riscontra più frequentemente  
nelle donne, nei non-fumatori, in pazienti con
adenocarcinoma e nei giapponesi.
Le maggiori tossicità indotte da questi farmaci
si riscontrano in maggior misura nella
popolazione asiatica, portatrice della
mutazione; si tratta prevalentemente di rush
cutaneo, reazione simil-acneiforme della cute
e diarrea.
Il cetuximab(ERBITUX) è un anticorpo monoclonale
diretto contro il dominio extracellulare
dell’EGFR ed è stato testato prevalentemente
nel trattamento del tumore del colon-retto.
Modelli preclinici hanno dimostrato che il
cetuximab possiede modesta attività se
somministrato in monoterapia, ma è in grado
di aumentare la sua attività quando
somministrato in combinazione alla
chemioterapia. Uno studio di fase II ha
valutato, in pazienti con tumore del colon
metastatico, l’attività del cetuximab in
combinazione con l’irinotecan in soggetti
refrattari al trattamento con questo
chemioterapico, dimostrando una percentuale
di risposte obiettive del 22,5%. In
considerazione di questi risultati incoraggianti
un ampio studio di fase II randomizzato è stato
condotto su pazienti refrattari all’irinotecan
confrontando cetuximab + irinotecan con
cetuximab in monoterapia; la combinazione ha
dimostrato un vantaggio in risposte obiettive e
tempo alla progressione [13].    
Nell’ambito del trattamento del tumore del
colon-retto un’altra classe di molecole ha
dimostrato una promettente attività clinica, gli
inibitori dell’angiogenesi. Mentre la
vascolarizzazione nell’adulto sano è
generalmente quiescente, i tumori richiedono
una costante crescita ed un costante
rimaneggiamento vascolare. Il processo
dell’angiogenesi è regolato da un delicato
bilancio tra fattori proangiogenici e fattori
antiangiogenici, che vengono rilasciati dal
tumore e dalle cellule sane, tra cui cellule
endoteliali, periciti, cellule del sistema
immunitario; il più potente fattore
proangiogenico è il vascular endothelial
growth factor (VEGF). Si tratta di un ligando
in grado di interagire con un recettore
trasmembrana (VEGFR) presente
prevalentemente sulla superficie delle cellule
endoteliali; il legame con lo specifico recettore
conduce ad un’aumentata permeabilità delle
strutture vascolari e ad un aumento della
migrazione e della proliferazione delle cellule
endoteliali. Altri fattori proangiogenici sono il
PDGF (platelet-derived growth factor), l’FGF-
1 e 2 (fibroblast growth factor), le integrine,
l’angiogenina ed altri.
Il bevacizumab(AVASTIN) è un anticorpo monoclonale
umanizzato diretto contro il VEGF che è stato
approvato dall’FDA nel trattamento di prima
 linea del tumore del colon metastatico in
combinazione con una chemioterapia
contenente fluorouracile. L’approvazione è
avvenuta a seguito dei risultati di un trial
randomizzato che confrontava la
combinazione irinotecan/5-
fluorouracile/leucovorin con e senza
bevacizumab [14]; i pazienti che hanno
ricevuto anche l’anticorpo monoclonale hanno
riportato un aumento significativo della
percentuale di risposte, della durata delle
risposte e della mediana di sopravvivenza. Più
recentemente i risultati di uno studio di fase II
che confrontava la combinazione
fluorouracile/leucovorin con e senza
bevacizumab in pazienti non candidati a
ricevere irinotecan, ha ottenuto risultati simili
al precedente studio di fase III con un
vantaggio in termini di risposte e tempo libero
da progressione per il braccio che riceveva
anche l’anticorpo [15]. Mentre l’efficacia del
bevacizumab è stata provata nel trattamento
del tumore del colon-retto, il regime
chemioterapico ottimale con cui associarlo è
ancora in studio.
Sempre nel trattamento del tumore del colon-
retto, un altro anti-angiogenico  testato in due
ampi studi di fase III è il vatalanib (PTK787),
che, al contrario di quanto atteso, non ha
prodotto vantaggi in termini di sopravvivenza
rispetto alla sola chemioterapia [16].  Il
vatalanib, agisce inibendo
l’attività tirosin-chinasica del recettore per il
VEGF (VEGFR).  
I maggiori effetti collaterali legati alla
somministrazione di agenti anti-angiogenici
sono: la proteinuria, l’ipertensione arteriosa,
l’anemia, la pastrinopenia e gli eventi
tramboembolici, oltre quelli comuni agli altri
agenti target, come il rush e la diarrea.
Il bevacizumab è stato testato con successo
anche nel trattamento del carcinoma renale in
fase metastatica, in cui, insieme ad altre
molecole.ad attività.-.anti.-.angiogenica, ha
dimostrato di avere un’attività superiore
rispetto al placebo in pazienti pretrattati.
Numerosi studi sono in corso al fine di
confrontare queste nuove molecole con il
trattamento con citochine ritenuto ad oggi il
trattamento standard per il tumore del rene.
Un’altra molecola, oltre il già citato
bevacizumab  ha dimostrato
un’interessante attività nel trattamento del
tumore del rene: il sorafenib(NEXAVAR) (BAY 43-9006),
un inibitore di Raf chinasi attiva sulla via
Raf/MEK/ERK. Si tratta di un’importante via
di convergenza dei segnali di traduzione
inviati attraverso il VEGFR, il PDGFR e
l’EGFR [17]. Altro farmaco promettente e' il sunitinib( SUTENT) (SU11248)
 che inibisce altre proteinchinasi ,
che si trovano su recettori delle cellule chiare

del carcinoma  renale
.


Sono state riportate le principali patologie
nell’ambito delle quali i farmaci sono stati
inizialmente testati ed hanno riportato i
maggiori successi clinici, ma sono stati
condotti e sono ancora in corso numerosi studi
che prevedono l’utilizzo di questi nuovi agenti
in tutte le neoplasie più frequenti.
I farmaci citati in questo articolo sono solo
alcuni dei multipli agenti continuamente in
studio nel trattamento dei tumori e la ricerca
 
biologica e farmacologia è in continuo
sviluppo al fine di identificare agenti con la
maggiore efficacia e la minore tossicità.
Gli studi futuri potranno portare allo sviluppo
di un database contenente profili proteomici
con i quali il profilo del paziente può essere
confrontato e dal quale si potrà selezionarne
una terapia individualizzata, la più sensibile e
specifica possibile.
 
 
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